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22 febbraio 2019

Il martirio via all’unità


Icona dei “Nuovi Martiri” eTestimoni della fede del XX e XXI secolo

Nel decreto conciliare Unitatis redintegratio si accenna, a un certo punto, al fatto che i fedeli cattolici devono riconoscere con gioia il patrimonio comune dei fratelli separati, «i quali rendono testimonianza a Cristo, talora sino all’effusione del sangue».1
Nella costituzione Lumen gentium, inoltre, si legge che con i cristiani non cattolici sussiste «una certa vera congiunzione nello Spirito Santo, che anche in loro opera con la sua virtù santificante mediante doni e grazie; alcuni poi di loro li ha fortificati fino all’effusione del sangue».2
Nella scia di queste affermazioni, l’enciclica di Giovanni Paolo II sull’ecumenismo Ut unum sint si esprime in questi termini:
«Tutte, infatti, hanno dei martiri della fede cristiana.
Malgrado il dramma della divisione, questi fratelli hanno conservato in se stessi
un attaccamento a Cristo e al Padre suo tanto radicale e assoluto
da poter arrivare fino all'effusione del sangue.
Ma non è forse questo stesso attaccamento a essere chiamato in causa
in ciò che ho qualificato come “dialogo della conversione”?
Non è proprio questo dialogo a sottolineare la necessità
di andare fino in fondo all’esperienza di verità per la piena comunione?».3

Come la testimonianza del sangue, la testimonianza più radicale, può contribuire a creare percorsi di conoscenza, di condivisione, di unità fra le Chiese? Perché può essere un atto che accomuna e rinnova l’identità profonda delle comunità? Tento di offrire una risposta sintetica articolandola in tre punti.4

IL MARTIRIO COMPIMENTO DELLA SEQUELA
La martyria non è tanto questione di morte, quanto una questione di vita in ogni istante e lo spargimento del sangue è il caso limite di questa testimonianza radicale al Signore: è questa la premessa indispensabile per cogliere la verità del martirio cristiano.
Il martire è tale perché testimone: non è la morte cruenta il criterio ultimo della martyria (in tale senso ha ragione F. Nietzsche quando afferma che una verità testimoniata col sangue non è necessariamente una buona causa),5 ma la fede confessante che sa assumere anche la sofferenza e la persecuzione.
In questo senso, il martirio appare come l’illustrazione più alta del comandamento dell’amore, un comandamento – sottolineava K. Rahner6 – che impone all’individuo non qualcosa, ma gli impone se stesso, gli impone il dono di sé totale, irrevocabile, definitivo.
In tale senso corrisponde al dono che Dio fa di sé nel Figlio: non un dono di benefici esteriori, ma il dono della propria persona, senza riserve.
Per questo il cristiano non cerca il martirio, ma lo accoglie. Se ogni istante è ormai favorevole, perché si dia testimonianza e quella suprema forma di testimonianza che è il martirio, deve però necessariamente esserci una chiamata, un’elezione. È un presupposto indispensabile, perché altrimenti saremmo in presenza della decisione autonoma di un soggetto, il quale si arrogherebbe il diritto di decidere quando e come rendere testimonianza. Il suo sarebbe un atto eroico, un omaggio a una verità ritenuta possesso suo. In realtà il martire non possiede la verità, ma è piuttosto posseduto dalla medesima; egli non si serve della verità per affermare se stesso, ma serve la verità per manifestare lo splendore della verità stessa.
E così attesta che l’unico e autentico martirio è quello del Signore Gesù, il Testimone fedele per eccellenza (cf. Ap 1,5; 3,14). È lui che ha vissuto in pienezza la testimonianza assoluta al Padre.
I discepoli rimandano con il loro martirio a quell’unico, perfetto sacrificio. Sono relativi a lui, servi «inutili» (cf. Lc 17,10) che nella loro testimonianza rendono presente il Kyrios nel suo donarsi fino alla fine, in una cristiformità che si manifesta fino nella morte.
In questo le Chiese ritrovano la verità di se stesse: testimoni di un Signore che chiede ai suoi di espropriare se stessi a vantaggio del Vangelo, come Paolo e Barnaba, «uomini che hanno rischiato la loro vita per il Nome del nostro Signore Gesù Cristo» (At 15,26). Una testimonianza dunque che implica non solo l’annunzio della salvezza, ma l’engagement della vita stessa: non tocca semplicemente un aspetto della vita, ma la vita nella sua totalità.

IL MARTIRIO ATTO ECCLESIALE

Il martire non è mai «cavaliere solitario», eroe della fede, ma è espressione di una comunità. Certo il suo atto è personale, ma mai pensato in senso individualista. Il martirio è atto ecclesiale per eccellenza.
Questo non solo perché il legame con Cristo non viene meno, anzi è rafforzato nella morte per lui, ma anche perché nel martire è in qualche modo tutta la Chiesa che soffre e che si offre.
Certo è sempre il singolo che deve rispondere liberamente della sua vita dinanzi alla richiesta d’amore del Signore, ma non può farlo che in quanto sostenuto dall’affidamento originario di tutta la compagine ecclesiale. Nelle vicende dei martiri questo a volte emerge con particolare evidenza: si pensi, ad es., al contesto nel quale nasce l’Esortazione al martirio di Origene, oppure si consideri come il martirio di E. Stein si sia consumato a seguito della coraggiosa presa di posizione dell’episcopato olandese contro il regime nazista

Un aspetto sottolineato dalla prima comunità cristiana è quello dell’elezione. Colui che è chiamato a testimoniare è un eletto: è stato scelto fra tanti fratelli per affermare davanti ai pagani la salvezza di Cristo. Mentre la Chiesa conforta il fratello nella prova con la preghiera e la solidarietà, questi, cosciente dell’aiuto che gli può venire dalle sue implorazioni, si raccomanda alle orazioni per poter portare a termine la sua testimonianza.
Il dono totale di sé per Cristo del singolo ridonda a vantaggio di tutti: solo un’ottica riduttivamente materiale potrebbe vedere nel martirio un atto inutile o addirittura negativo per il corpo ecclesiale.
È, invece, dono di testimonianza per tutta la Chiesa e di partecipazione agli altri del mistero pasquale, permettendo ai fratelli di intensificare il loro legame con la croce, aprendo lo spazio per completare nella carne di ognuno quanto manca ai patimenti di Cristo (cf. Col 1,24). Nel martirio si realizza così, per usare l’espressione di H.U. von Balthasar, la «ridondanza della croce eucaristica sui redenti».7
Per questo, il martirio può valere come homologia viva che porta la comunità ecclesiale al di là di ogni differenza confessionale, in una comunione che in questo atto è già «perfetta», come afferma
Giovanni Paolo II in Ut unum sint. Ecco le sue parole:
«In una visione teocentrica, noi cristiani già abbiamo un Martirologio comune. Esso comprende anche i martiri del nostro secolo, più numerosi di quanto non si pensi, e mostra come, a un livello profondo, Dio mantenga fra i battezzati la comunione nell’esigenza suprema della fede, manifestata col sacrificio della vita. Se si può morire per la fede, ciò dimostra che si può raggiungere la mèta quando si tratta di altre forme della stessa esigenza. Ho già constatato, e con gioia, come la comunione, imperfetta ma reale, è mantenuta e cresce a molti livelli della vita ecclesiale. Ritengo ora che essa sia già perfetta in ciò che tutti noi consideriamo l’apice della vita di grazia, la martyría fino alla morte, la comunione più vera che ci sia con Cristo che effonde il suo sangue e, in questo sacrificio, fa diventare vicini coloro che un tempo erano lontani (cf. Ef 2,13)».8

MARTIRIO DONO PER IL MONDO

Probabilmente, come sosteneva D. Bonhoeffer, non è più il tempo dei martiri dei primi secoli, eroici, incontaminati, puri. È il tempo dei martiri anonimi, dimenticati, ma ancora più preziosi perché forse più simili ancora alla figura di Gesù. In fondo, è l’eco dell’attuale esperienza delle Chiese cristiane, che nel mondo secolarizzato devono sottostare a una marginalizzante indifferenza, con una crescente incapacità di incidere sui grandi mutamenti culturali del secolo presente. E così anche il martirio assume un tono più smorzato, una luce più fioca, ma non meno preziosa: si pensi alla testimonianza dei martiri di Tibhirine,9 all’enigma della loro morte, alla loro testimonianza comunitaria in un contesto non cristiano, come lievito destinato a far crescere tutta la pasta.
Va ribadito che il martire cristiano non muore per imporre un’idea, per quanto nobile. Muore per attestare un legame, una relazione con Colui che lo ha chiamato e che è la sua stessa ragione di vita. Meno che mai il martire cristiano si procura la morte per provocare la morte di altri.
La testimonianza cristiana si radica non in un’esigenza di propaganda, ma è richiesta dalla fedeltà a Dio. E la persecuzione non dovrebbe diventare causa di risentimento, ma occasione propizia per una buona testimonianza. Nell’abisso dell’odio violento e cieco, il discepolo sa di poter porsi come luce, come portatore di una logica diversa rispetto a quella della vendetta.
Assumere la sofferenza, quando questa è ingiusta e assurda, non significa accettarne i presupposti né rassegnarsi alla medesima, ma piuttosto spezzare il legame di odio tra il persecutore e la vittima; rispondere dando la vita a chi toglie violentemente la vita; porsi come offerta inerme dinanzi a chi presume di annientare l’esistenza: è dunque affermazione suprema della vita, proprio mentre
questa viene meno.
Se il martirio è il massimo atto di amore, come sostiene Tommaso d’Aquino,10 si deve aggiungere che si tratta di un amore creativo, nel senso che istituisce un legame del tutto nuovo tra il Crocifisso (la vittima) e il carnefice: un legame sottratto alla logica della reciprocità sullo stesso piano e ancora più alla vendetta e posto in essere invece da quest’atto puro, divino, che crea un novum assoluto, cioè una relazione nella quale al carnefice è resa disponibile l’accoglienza incondizionata, il perdono per l’appunto, del Crocifisso. Questa creatività del perdono è la fecondità della croce, la trasformazione dei legami di morte in relazioni vitali. Il perdono è dono compiuto, gratuito, senza alcun interesse: un dono in pura perdita.

MARTIRI PER IL TERZO MILLENNIO

Il beato martire passionista Eugenio Bossilkov con i bambini della prima comunione della sua Belene.
Si lascia la conclusione a quanto scriveva, alle soglie del Terzo millennio, Giovanni Paolo II alla Chiesa (e qui dobbiamo pensare a tutte le confessioni cristiane, se è vero che nel martirio la comunione è già perfetta):
«La Chiesa ha trovato sempre, nei suoi martiri, un seme di vita. Sanguis martyrum – semen christianorum: questa celebre “legge” enunciata da Tertulliano, si è dimostrata sempre vera alla prova della storia. Non sarà così anche per il secolo, per il millennio che stiamo iniziando? Eravamo forse troppo abituati a pensare ai martiri in termini un po’ lontani, quasi si trattasse di una categoria del passato, legata soprattutto ai primi secoli dell’era cristiana. La memoria giubilare ci ha aperto uno scenario sorprendente, mostrandoci il nostro tempo particolarmente ricco di testimoni, che in un modo o nell’altro hanno saputo vivere il Vangelo in situazioni di ostilità e persecuzione, spesso fino a dare la prova suprema del sangue. In loro la parola di Dio, seminata in buon terreno, ha portato il centuplo (cf. Mt 13,8.23). Con il loro esempio ci hanno additato e quasi spianato la strada del futuro. A noi non resta che metterci, con la grazia di Dio, sulle loro orme».11

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Articolo di Stefano Zamboni (docente di etica teologica all’Accademia Alfonsiana e alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum; direttore della Rivista di Teologia Morale), tratto da RTM (2012)176, 605-610

Note
1 UR 4: EV 1/515.
2 LG 15: EV 1/325.
3 Ut unum sint 83: EV 14/2845.
4 Rimando per un approfondimento al mio saggio «Chiamati a seguire l’Agnello». Il martirio compimento della vita morale, EDB, Bologna 2007. Cf. anche «Martirio e vita morale», in Rivista di Teologia Morale (2005)145, 53-70.
5 Cf. F. NIETZSCHE, L’anticristo. Maledizione del cristianesimo, Fabbri, Milano 2004, n. 53, 76; ID., Così parlò Zaratustra, II: «Dei preti», Fabbri, Milano 1985, 112.
6 Cf. K. RAHNER, Il comandamento dell’amore, Paideia, Brescia 1964, 35-36.
7 Cf. H.U. VON BALTHASAR, Teodrammatica. IV: L’azione, Jaca Book, Milano 1999, 392.
8 Ut unum sint 84: EV 14/2846.
9 Cf. FRÈRE CHRISTIAN DE CHERGÉ E GLI ALTRI MONACI DI THIBIRINE, Più forti dell’odio, Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano (BI) 2010.
10 Cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q. 124, a. 3.
11 Novo Millennio Ineunte 41: EV 20/82.

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