Questo
manoscritto, di cui si era a conoscenza, e che da decenni si ricercava, non venne mai
pubblicato, è inestimabile e rappresenta la più antica narrazione
della storia dei bulgari finora conosciuta.
Finalmente nel 2020 è stato pubblicato, con l'edizione critica del testo in latino e con
la traduzione in bulgaro a fronte. Siccome non esiste
ancora una traduzione in italiano, mi permetto qui di presentarvi una mia
traduzione di un capitolo per me preziozissimo.
Si
tratta del racconto della conversione dei primi Paolini o Pauliciani (che
poi formeranno nel 1648 la ricostituita diocesi di Nicopoli ad Istrum, dove da 10
anni vivo e lavoro.
Un
racconto che profuma di Atti degli Apostoli, e che è
incentrato sulla settimana che va dal 25 gennaio al 2 febbraio 1603, quando il
signor Tatin ed un centinaio di suoi compaesani del
paesino di Cinquefonti (l'attuale frazione di Belene chiamata
ancora oggi Petokladentsi), dopo aver accolto il vangelo dalla
bocca del francescano bosniaco fra Pietro da Soli (Tuzla), vengono
battezzati nella fede cattolica romana.
Lascio allora la parola a fra Petar Bogdan, e se riesco continuerò nella traduzione di questo racconto, che prosegue con la conversione degli altri paesi limitrofi, tra cui la nostra amata belene. Buona lettura!
fra Pietro Deodato da Ciprovtsi
(fra Petar Bogdan Bakshev)
“De antiquitate paterni soli et de rebus bulgaricis”
Tomo I, capitolo XXVIII
Le prime notizie sui Paoliciani
1. Non sappiamo da quale persona il raguseo Mauro Orbini, abate melitense, si sia informato erroneamente per la sua Storia degli Slavi scritta in italiano, sul fatto cioè che i Paoliciani siano stati battezzati nel periodo in cui l’imperatore mosse guerra contro i turchi ed i transilvani. Questo successe intorno al settembre od ottobre nell’anno del Signore 1596, quando Michele voivoda, principe di Valacchia, si ribellò contro i turchi.
Le seguenti pagine riveleranno il suo errore, dal momento che io e l’intera regione siamo testimoni oculari e sappiamo bene quando e come essi giunsero alla fede cattolica, pur se diverse persone, in diversi modi, han provato a distorcere questa verità: tuttavia la verità rimane in eterno, come afferma Aristotele: “Sono vere quelle cose che non da altri, ma da se stesse traggono fede” […].
3.
Ma ritorniamo ora ai Pauliciani. Un giorno il vescovo (fra Peter da Soli),
insieme ai suoi collaboratori, in occasione della festa di Santo Stefano
protomartire, fu invitato a pranzo da un cattolico, secondo l’usanza dei nostri
cattolici nelle feste dei santi. Quel tale invitò a pranzo pure il maestro
della scuola, il quale insegnava al proprio figlio.
Quando
venne il giorno prefissato, il Vescovo prese con sé il frate padre Elia ed il
maestro suddetto, e si recarono alla casa di quello che li aveva invitati. Egli
li accolse cortesemente nell’atrio, con tutti gli onori, e dopo li condusse in
casa, dove erano radunati amici e vicini.
Durante
il pranzo, come è consuetudine, chiaccheravano su diversi argomenti, e
soprattutto ascoltavano con vivo interesse il Vescovo e frate Elia raccontare la
magnificenza della città di Roma, il potere supremo del Sommo Pontefice, la
bellezza e la maestà delle chiese.
Tra i convenuti sedevano due mercanti cattolici, che trafficavano le loro merci nella zona di Nicopoli sul Danubio, la qual città dista da Ciprovtsi all’incirca tre o quattro giorni di viaggio verso oriente. Uno dei due si chiamava Martino Ivancich, l’altro Nicolino Latincovich, entrambi rispettabili cattolici Ciprovciani.
4. Conoscendo
bene la regione di Nicopoli ed i dintorni, quando sentirono il Vescovo parlare
della chiesa di Roma, gli dissero: “Reverendissimo signore, intorno a Nicopoli
si trovano alcuni villaggi, chiamati Paulianisti, abitati da persone che
parlano la nostra lingua, i quali non seguono né il rito greco né quello
latino. Noi spesso passiamo tra di loro, ma quando li interroghiamo sulla loro
confessione religiosa, non riescono a dirci nulla, se non questo: ‘Noi - essi
dicono - viviamo allo stesso modo dei nostri padri, nella stessa professione di
fede in cui sono vissuti e morti’. Ed aggiungono: ‘Il fondamento della nostra
professione di fede proviene dalla città di Roma’, dove credono che siano
sepolti gli apostoli Pietro e Paolo. Non riescono neppure ad immaginare che
qualche comune mortale abbia visto al presente la fortezza di Roma, perché tra queste
popolazioni l’esistenza di Roma è totalmente sconosciuta.
E
noi, rispondendo a loro, attestiamo e diciamo che la nostra fede è Romana, ed i
nostri sacerdoti sono stati mandati dal Romano Pontefice, è che proprio in
questi giorni il Romano Pontefice ci ha mandato un vescovo, conscrato da lui su
nostra richiesta, e che attualmente risiede tra di noi. Ma non riusciamo a
convincerli che si trovano presso di noi delle persone che hanno visto la città
di Roma”.
Allora Nicolino aggiunse: “Reverendissimo Presule, in uno di questi paesi c’è un vecchio, persona rispettabile, che appena sentì che presso di noi sono giunte persone state a Roma, quasi come risvegliatosi improvisamente dal sonno, espresse il grande desiderio di incontrare tali persone, e ripetutamente ci chiese con entusiasmo: ‘Ma è proprio vero quel che dite? Se fate in modo che una di queste persone venga qui da noi… immediatamente io e la mia famiglia saremo i primi a mettere in pratica qualunque cosa ci diranno”.
5. Il
Vescovo ascoltava con attenzione tutte queste notizie, quindi Elia disse al
Vescovo:
“Signore
reverendissimo, anch’io ho sentito molte volte dai nostri queste cose che avete
sentito ora, ma finora non avevo mai sentito le parole dette loro da tale
anziano. Se davvero è così, Padre, andiamo a vedere questa gente, non stanno
lontani, ed io verrò con voi”.
Il Vescovo allora, che aveva sempre il cuore aperto per operare a gloria di Dio, rispose al presbitero Elia: “Figlio mio! Con piacere ci andrò! Chissà… magari Dio desidera aprir loro le porte della fede, attraverso questi buoni cattolici e attraverso di noi, nonostante siamo suoi indegni servi e tuttavia ministri di Cristo. Ma sarà necessario che questi signori cattolici, se possibile, vengano con noi, visto che sono pratici delle strade e conoscono quelle persone, e quelli di cui ci han parlato conoscono loro”.
6.
Allora Martino e Nicolino si alzarono da tavola e, baciando la mano del
Vescovo, tutti gioiosi gli promisero di accompagnarlo presso quella gente. Terminato
il pranzo, secondo la tradizione resero grazie a Dio, si salutarono e tornarono
tutti a casa.
Da quel
momento rimase impresso nel cuore del Vescovo il ricordo di quella gente, e
spesso ne parlava con il presbitero Elia e con gli altri religiosi. Coinvolse
nella discussione pure il sindaco Petar con altri rappresentanti del popolo,
per ricevere consigli da loro, dal momento che a tutti aggradiva l’idea della
conversione di quella gente alla fede cattolica, ma ritenevano pericoloso
mandare il loro Vescovo allo sbaraglio presso quella gente sconosciuta e un po’
selvaggia, ben sapendo che essi vivevano in mezzo ad una maggioranza di turchi
e di scismatici, di cui avevan più paura che degli stessi Pauliciani.
Infine
convocarono Martino e Nicolino, e chiesero loro se davvero il Vescovo poteva
andare e tornare con loro, senza incorrere in rischi e percicoli.
Essi
risposero: “Non c’è nulla di cui preoccuparvi, brava gente! Ci impegnamo noi,
colla grazia di Dio, ad accompagnare il Vescovo col suo compagno, e poi a
riportarlo a casa sano e salvo!”.
Allora il sindaco e tutti i presenti, riconoscendo come buona e santa la proposta del Vescovo e di Elia, si resero disponibili e promisero, secondo le loro possibilità, di sostenerli qualora ce ne fosse stato bisogno (la qual cosa si vedrà bene dagli eventi successivi), e quindi approvarono la loro volontà e li affidarono ai suddetti commercianti.
Tomo I, capitolo XXIX
La prima visita del Vescovo e di Elia ai Pauliciani.
1.
Trascorsi così alcuni giorni dopo la Natività del Signore, il Vescovo ed il
presbitero Elia cominciarono a prepararsi per il viaggio e convocarono i
suddetti mercanti, che nel frattempo si erano preparati, e dopo aver preso
tutto il necessario per il viaggio, affidarono se stessi a Dio ed alle
preghiere di tutti, e nell’anno 1603 (secondo alcuni fu il 1604), insieme ai
mercanti partirono da Ciprovtsi vestiti in abiti civili, per non essere
molestati dai Turchi, dal momento che i Turchi si comportano malamente
soprattutto verso i monaci, come tutti sanno, in particolare con quelli loro
sudditi, sottomessi con noi allo stesso intollerabile giogo.
Dopo
quattro giorni, al tramonto del sole, giunsero al paese di Petocladentsi, che
tradotto significa Cinque Fonti, dove viveva quel buon uomo che desiderava
ardentemente incontrare quelli che avevano visto la città di Roma.
Si
recarono quindi direttamente a casa di questo tale, il quale uscì e riconobbe
Martino e Nicolino, e li accolse con piacere come ospiti.
Dal
momento che quel tale non conosceva il Vescovo ed i suoi collaboratori, e
pensava che fossero pure loro mercanti, decisero per il momento di non rivelare
la loro identità, ma di farlo dopo essersi assicurata la loro benevolenza.
Il
capo famiglia li introdusse allora in casa, davanti al focolare (faceva infatti
molto freddo), e cominciò a discorrere familiarmente con loro, e per tutta la
serata si comportà umanamente, mentre osservava con grande attenzione i loro
gesti e le loro parole, mentre cenavano e dialogavano.
Ad
un certo punto egli disse ai mercanti, da lui conosciuti: “Mi sembra che questi
vostri compagni siano persone distinte e colte, dove stanno andando”?
Allora
Martino rispose: “Non vanno lontano, e prima di lasciare la tua casa spero che
la loro venuta sortisca l’effetto desiderato”.
Queste
parole resero l’uomo ancora più curioso.
2.
Il mattino seguente, molto presto, il Vescovo si alzò con i suoi, e dopo aver
acceso una candela, cominciarono a recitare l’Ufficio Divino.
Il
capo famiglia, vedendo ciò, si avvicinò a Martino e Nicolino e li esortò a
rivelargli chi fossero quegli ospiti, visto che pur essendo analfabeta e privo
di cultura, tuttavia vedeva che essi leggevano l’ufficio da libri che lui non capiva,
e perciò stava pensando che fossero uomini ecclesiastici.
Martino
gli rispose: “Queste son le persone di cui ti abbiamo parlato una volta, quelli
che da poco son arrivati dalla città di Roma. Quello più anziano è il nostro
Vescovo, che tu hai cominciato ad ammirare e onorare ancor prima di conoscerlo”.
Quanto
Tatin (così si chiamava quell’uomo) sentì ciò, andò subito dal Vescovo, e con
la schiettezza tipica dei paesani di quella zona, gli disse: “Abbiamo saputo
dai nostri mercanti che voi avete visto la città di Roma, e che poi siete stati
mandati presso coloro che sempre ho desiderato incontrare, e così anche di
dirvi che, secondo la tradizione dei nostri padri, la vera religione risiede
presso i romani, presso i quali riposano i principi degli apostoli, Pietro e
Paolo. E che questa città è sconosciuta per noi e per i nostri padri, e non
riusciamo a credere che esista al presente una persona da noi conosciuta che
l’abbia vista. Ed ora, come sento, voi avete visto la felicissima Città con i
vostri occhi”!
3.
Il Vescovo, cogliendo al volo questa occasione, iniziò ad esporgli la vera
religione, magnificando la gloria della città di Roma, la grandezza dei santi
Apostoli e degli altri martiri e confessori della fede da cui la città era
arricchita, lo splendore e la quantità delle chiese che la adornavano, la somma
autorità del Pontefice Romano, capo della Chiesa.
E
poi aggiunse: “Noi non solo una volta, ma molte volte abbiamo visto questa
città e visitato le reliquie degli apostoli, e pochi anni orsono abbiamo
ricevuto l’episcopato dalle mani dello stesso romano pontefice, che ora tiene il posto di Pietro”.
E gli raccontò molte altre cose, in modo che quello potesse capirle.
Pure il presbitero Elia si affaticò e condusse dal Vescovo quelli che vedeva
desiderosi di ascoltare la Parola di Dio, i quali si recavano da lui per ascoltarlo con piacere.
Ma
c’erano pure alcuni che protestarono e scappavano, andando dal loro sacerdote
(che poi sacerdote non era, ma solo un laico; loro infatti chiamano papas
quelli che sanno leggere qualcosa in slavo, e da se stessi ne prendono uno a
loro piacere e lo creano, cioè lo chiamano sacerdote, e quando vogliono lo
depongono).
Il
quale sacerdote li consigliava così: “Non fidatevi di questi uomini! Sono
quelli di cui il vangelo dice: Molti falsi profeti sorgeranno e sedurranno
molti! Da tali persone dovete difendervi, perché vengono travestiti da agnelli,
ma dentro sono lupi rapaci!”.
Diceva
pure: “Voi sapete bene che noi ed i nostri genitori abbiamo sempre vissuto per
secoli secondo la tradizione trasmessaci dai nostri padri, ed ora sono arrivati
questi cialtroni a turbare noi e la nostra gente, e a sovvertire le nostre
tradizioni”.
Altri
schiamazzavano: “Questi tizi non han mai visto Roma, neppure in sogno! Vogliono
solo imbrogliarci con le loro bugie, cercano così di illudere la nostra
gente”!.
Alcuni
di loro, davvero infuriati, minacciarono addirittura di ammazzare il vescovo
coi suoi collaboratori ed accompagnatori. Con queste e simili minacce ed offese
non cessavano di attaccare il vescovo, ma non osavano insorgere apertamente
contro di loro, per timore dei turchi: solamente latravano, ma di mordere non
ne avevano la minima intenzione.
4.
Mentre questa gente protestava, il vescovo continuò a dimorare nella casa di
colui che l’aveva ospitato, senz nessun ombra di paura. Continuarono a venire
da lui coloro i cui cuori erano sati toccati dallo Spirito Santo, e lui
conversava con loro familiarmente, e passo dopo passo li conduceva alla
conoscenza della vera fede.
Dopo
un’opportuna preparazione, Tatin con molti altri accolsero la fede cattolica, e
così il vescovo celebrò la sua prima messa nella loro chiesa di Petocladentsi,
come ci ha pure lasciato scritto di suo pugno, in occasione della festa della
conversione di San Paolo nel 1603 e poi, nella successiva festa della
Purificazione battezzò un centinaio di loro e li unse col sacro crisma.
E così, consolato dalla conversione dei suddetti, il vescovo coi suoi compagni se ne tornarono, con la grande speranza della conversione anche degli altri.
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