Pubblichiamo qui l'omelia che p. Valter Gorra (superiore dei Passionisti in Bulgaria e parroco della Cattedrale di San Paolo della Croce a Russe) ci ha donato durante la festa dei martiri bulgari vissuta a Belene lo scorso 15 novembre.
Cari fratelli e sorelle
in Cristo,
l’odierna festa dei beati martiri bulgari Eugenio,
Kamen, Pavel e Iosafat, fucilati a Sofia la notte tra il 10 e l’11 novembre
1952, ci dona la possibilità di una meditazione profonda sul significato del
martirio cristiano e lo faremo ponendo la nostra attenzione su alcuni punti che
svilupperemo brevemente.
Ma innanzitutto iniziamo
con l’aspetto che il termine stesso di martirio in greco vuole significare:
testimonianza.
Capiamo tutti e subito che
nel cristianesimo parliamo di testimonianza a Cristo e di essere a Lui fedele
in vita sino alla donazione di essa in nome di Cristo.
Il martirio quindi
risulta essere una riuscita da parte dell’uomo a resistere alla tentazione di
abbandonare Cristo e di evitare di seguire “altro” diverso da Cristo.
Il martirio rappresenta
sicuramente il più alto grado della santità, tanto che nei processi di
beatificazione non vi è bisogno del miracolo interceduto dal martire. Il
martirio stesso è prova sublime della santità. Perché non si diventa martiri
casualmente. Senza una forte vita di fede non si riesce ad affrontare il
martirio. Senza una forte e intima unione con Cristo durante la vita, non si
affronta il martirio e non si risponde con fedeltà a Lui in quel momento così
difficile e doloroso.
Se non si è capaci di
portare le piccole croci quotidiane, non si riuscirà a portare la Croce di
Cristo e salire con Lui per essere con Lui crocifissi.
Chi non vive in Cristo
non potrà sicuramente testimoniarlo accettando il martirio.
E se è vero parzialmente
che il martirio è un buon risultato ottenuto da parte dell’uomo, non ci si deve
dimenticare che innanzitutto è opera e dono di Dio.
Perché il martirio si può
comprendere ed accettare solo alla luce della Croce salvifica e redentrice di
Cristo, alla luce del vero Seme che muore per portare frutto.
A Gesù era chiaro il
cammino da percorrere e ne parla apertamente ai suoi discepoli: In verità, in
verità vi dico che se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane
solo; ma se muore, produce molto frutto (Gv 12,24).
Gesù nel Vangelo di Luca
mostra appieno la sua decisione, in quel passaggio che è la svolta della sua
missione (nel capitolo 9 al versetto 51): mentre si avvicinava il tempo in cui
sarebbe stato tolto dal mondo, Gesù si mise risolutamente in cammino per andare
a Gerusalemme.
L’andare di Gesù a
Gerusalemme dimostra una sua decisione di portare sino in fondo la sua missione
che è quella di salvare tutti gli uomini, sino alla morte e alla morte di
croce.
La morte di Gesù ancor
prima di essere stata decisa da un tribunale umano, era già dono di sé, della
sua vita, da parte di Gesù stesso. Come dice Gesù nel Vangelo di Giovanni:
Nessuno mi toglie la vita, ma io la depongo da me (Gv 10,18).
Su questa linea anche i
quattro beati che oggi festeggiamo non sono stati semplicemente uccisi, ma
hanno avuto la volontà di donare la loro vita ad imitazione di quella di
Cristo. Sarebbero potuti scappare, il beato Eugenio sarebbe potuto rimanere a
Roma, come consigliato dai confratelli passionisti, avrebbero potuto accogliere
le richieste a loro fatte dal regime. Niente di tutto questo. Hanno donato la
loro vita, tutta, completamente, sino alla morte.
Hanno voluto essere come
Gesù decisi di dirigersi verso la loro Gerusalemme, il loro Calvario, la loro
Croce.