7 marzo 2020

L'epidemia falcia la vita di 60mila romeni e bulgari, e di tre Missionari Passionisti

padre Francesco Maria Ferreri
missionario in Bulgaria (1781-1813)
Altri tempi, altri volti, altre storie.
Correva l'anno 1813.
Siamo nell'Europa Cristiana di duecento anni fa, il primo ventennio del 1800, devastata e dilaniata dalle Guerre Napoleoniche (1800-1815), che provocarono la morte di oltre 3 milioni di soldati e oltre un milione e mezzo di civili, più altri milioni di europei sfollati e profughi.
Nei Balcani, l'ennesima guerra Russo-Turca (1806-1812), (l'ottava) tra l'impero Russo e l'impero Ottomano, con i Russi cristiani contro i Turchi mussulmani alleati dei Francesi cristiani...
Le armate Russe, dopo aver "liberato" tutto il nord della Bulgaria, se ne tornarono in Russia, dopo aver messo a ferro e fuoco e incendiato diverse città bulgare, tra cui Vidin, Nikopol, Svishtov, Russe, Silistra. Oltre alle distruzioni dei Russi, le distruzioni dei Turchi, ed i saccheggi di entrambi nei villaggi e nelle campagne.
Si calcola che circa 100.000 poveri bulgari del nord (tra cui anche molti nostri cattolici), fuggirono profughi al di là del Danubio: le frontiere erano chiuse... ma con barche di fortuna o sopra le acque ghiacciate l'ondata di profughi bulgari invase la Romania).
In questo contesto di profughi, morti, feriti, distruzione, spostamento di truppe e razzie, scoppia pure una terribile epidemia, la peste Caragea.
Il paziente zero, appartenente all'entourage del nuovo Principe di Valacchia, Ioan Caragea, la portò direttamente da Istanbul a Bucarest nella primavera del 1813. In pochi mesi provocò circa 60.000 morti. Nella sola Bucarest (che allora aveva 120.000 abitanti, i morti furono circa 30.000, cioè un quarto degli abitanti). Tra di loro... tre Missionari Passionisti:

Monsignor Francesco Maria Ferreri,
primo Vescovo passionista della Diocesi di Nicopoli
ed Amministratore Apostolico della Vallachia (1805-1813)
padre Raimondo Mornia (29/10/1813),
il vescovo Francesco Ferreri (03/11/1813),
e p. Pietro Maria Molinari (il 10/11/1813).

Propongo qui alla lettura una testimonianza dell'epoca, lasciataci dal mio predecessore, il parroco di Belene padre Carlo Romano.
Un resoconto che, in questi nostri tempi di epidemie, guerre, profughi... ci mostra di come poi nella storia tante cose, anche tragiche, si ripetono, ed i destini delle singole persone sono presi dentro in eventi più grandi di loro, che modificano o stravolgono la vita.
Certamente la testimonianza di questi tre passionisti italiani che, invece di tornarsene al sicuro nell'amena patria, scelgono di restare in mezzo alla loro gente, sia durante la guerra che durante la peste, dice molto.
Con le nuove norme per le canonizzazioni, potrebbero essere dichiarati seduta stante Santi Martiri della Carità, senza alcun ragionevole dubbio.
Nè la morte, nè la vita, nè la guerra, nè la peste,
ci potrà mai separare dall'amore di Cristo
e dall'amore verso il prossimo.

La peste del 1813-1814 e morte del vescovo e dei missionari.
Lettera di p. Carlo Romano cp
Belene, 30 ottobre 1841
(pubblicata in RSSP n. 32, Roma 1985, pp. 98-103)

Reverendissimo padre,
all'epoca del 1812 quattro Missionari Passionisti (p. Ercolani, p. Fedeli, p. Molinari, p. Mornia) trovavansi in Bulgaria insieme con monsignor Ferreri ad assister quella Cristianità.
Il Trattato di Bukarest del 1812 fra la Russia e la Porta Ottomana aveva posto fine a tutte le ostilità fra le due Potenze belligeranti e ridonata la pace a queste infelici provincie le quali, evacuate dalle truppe moscovite, respiravano un'aura propizia di serenità e di calma.
Divisi i missionari nei diversi villaggi cattolici, attendevano alle funzioni del loro ministero, ed instancabili vegliavano alla custodia del loro piccolo gregge.
Se il P. Fedeli abbandonò il suo posto per ritornarsene in Roma, annoiato forse dal modo di vivere a cui soggiace il missionario sempre esposto a timori, a persecuzioni, a travagli, don Michele Sancio, sacerdote svizzero, ordinato da monsignor Ferreri, rimpiazzollo prontamente, sacrificandosi con invincibile coraggio ad ogni genere di fatiche in vantaggio delle anime.
Quando più consolanti erano le speranze di un felice avvenire, manifestossi il terribile flagello della peste nella città di Bukarest.
Il barbaro sistema del governo mussulmano, di non adottare misure sanitarie onde impedire la comunicazione del contagio fra le province e le città, lasciò libero il campo al morbo micidiale di propagarsi in brevissimo tempo, e tutta la Bulgaria, e tutta la Vallachia dentro pochi mesi furono inondate dal pestifero morbo.
La fierezza con cui mieteva la vita dei miseri abitanti e desolava gl'interi paesi cresceva in proporzione del suo dilatarsi e le vittime della sua inesorabile crudeltà furono innumerevolissime.
La sola Bukarest contò 40 mila morti. Nelle altre città e paesi la strage fu per lo spazio di quasi due anni continui. Moltissime famiglie restarono affatto estinte, molte case affatto vuote di abitatori, rimanendo la sola memoria dei superstiti a certificare la loro passata esistenza. i cattolici ancora furon visitati dal flagello, malgrado le precauzioni adoperate, e molti furon preda della morte.
Il lutto, il pianto, la desolazione di queste sciagurate provincie può immaginarsi, ma non può descriversi. Appena ebbero i missionari il primo sentore del pericolo a cui erano esposti i loro fratelli, fatti coraggiosi dalla loro carità, determinarono di esporre la loro vita per lo spirituale vantaggio dei prossimi e offertisi in sacrifizio al Signore entravano intrepidi nel campo, aspettando da Dio o la Sua assistenza per soccorrer tanti miseri abbandonati, o la morte in premio della loro carità.
Volendo però a qualunque costo salvar la vita preziosa del vescovo, che vedevano tanto necessaria in sì terribili circostanze, gli persuasero con ogni sorta di ragioni a ritirarsi da Bukarest, già tutta attaccata dal morbo, in qualche villaggio non ancora infetto.
Il buon prelato, che più volentieri partecipato avrebbe alle opere di loro carità e di loro zelo, non si arrese così facilmente alle loro rimostranze, ma pregato altresì dai reverendi Padri Francescani, nel cui convento dimorava, a provvedere alla sua salute, si ritirò finalmente in Cioplea, quale ben presto restò invaso anch'esso dal contagio.
Intanto attaccati di peste i due Padri di San Francesco, che solo restati erano all'amministrazione della parrocchia di Bukarest, ne giunse la triste nuova a Monsignore, il quale compassionando lo stato di quei Padri e di tanti fedeli che morti sarebbero senza soccorso alcuno di Religione, vi spedì prontamente il Padre Mornia.
Giunto il missionario in Bukarest e mirando l'orrido spettacolo che presentava quella desolata città, ripiena di morti e di moribondi, non lasciò atterrirsi dal pericolo o sgomentarsi dalla fatica; si porta al convento, e trova i due Padri già vicini a spirare, li consola, li conforta, li assiste, e ministrati loro gli ultimi Sacramenti, in poco tempo muoiono ambedue.
E perché ciascuno si ricusava al pietoso officio di dar sepoltura ai loro corpi per timore di contrarre il morbo, il caritatevole Padre prestò da se stesso quest'ultimo tributo di pietà e di religione a quei deformati cadaveri.
Restato solo in quella grande città, si sarebbe detto che l'ardore inesauribile della sua carità ne moltiplicava la persona. Nelle case particolari, nei pubblici alloggi, negli ospedali, nelle piazze, nelle strade, da per tutto accorreva l'instancabile missionario ad assistere moribondi, a confessar peccatori, a riconciliare eretici ed amministrar sagramenti, a seppellir morti.
Chiamato di giorno, sollecitato di notte dalle grida compassionevoli di chi addolorato languiva e sfinito esalava l'ultimo spirito, da per tutto accorreva a portar consolazione, sollievo, conforto, non risparmiando e travaglio e fatica per giovare ai suoi fratelli e salvare le anime.
"Io sto sempre fra i cadaveri.", scriveva egli al Padre Ercolani, "Di cadaveri sono ingombre le strade e sono piene le case. Pur fra tanti cadaveri, ed in mezzo a tanto contagio, l'amoroso Signore mi conserva ancor sano e robusto; io desidererei abboccarmi un momento con voi, mio reverendo Padre, e colla vostra conversazione dissipare le tanto tetre e funeste impressioni da cui è tormentato il mio povero spirito».
Si assentò difatti per un istante da Bukarest per portarsi a Cioplea e rivedere il suo caro confratello per l'ultima volta, e spirar l'anima fra le sue braccia.
Vi trovò moribondo il sacerdote don Marino Razdilovich, missionario di Propaganda di nazione bulgaro, lo consolò con parole di tenerissimo interesse, ma non poté assistere alla sua agonia, perché fu sorpreso dal morbo micidiale .
Nel momento che sedeva alla povera mensa, scarsamente ristorandosi insieme col P. Ercolani, sentissi assalito da un veementissimo freddo, che tutte ne scuoteva le membra e traballar faceva il corpo. L'indizio della peste era troppo evidente. La scambievole consolazione cangiassi di repente in lutto, ma il P . Mornia, nulla sgomentato chiese all'istante di confessarsi. Ambedue reciprocamente s'amministrarono questo sagramento, quale venne ricevuto dall'uno e dall'altro come l'ultimo della loro vita, quindi aggravandosi il male si volle vestir dell'abito di Passionista, e coricatosi sopra un sacco di paglia, aspettava il momento di consumare il suo sagrificio.
Il padre Ercolani, temperando il dolore che gli straziava il cuore per vedersi ormai privo di questo amato confratello, volle assisterlo fino all'ultimo istante, gli ministrò il Viatico e l'Estrema unzione, quale ricevé con i sentimenti della più edificante pietà e della più tenera divozione. Sereno in volto, tranquillo nello spirito, rassegnato col cuore, soffriva con eroica intrepidezza gli acuti dolori del male, e dimentico quasi di se stesso, era tutto compassione per il missionario Rasdilovich, che sentiva nella contigua stanza gemere e dolersi. Morì questo sacerdote di peste contratta nell'assistere una povera moribonda, ed il P. Mornia, che più nol sentiva lagnarsi , immaginò che fosse già volato al cielo, lo che servì ad accrescere i suoi desideri di presto sciogliersi dai legami del corpo per andare ad unirsi al suo Dio.
Gli ultimi suoi momenti si avvicinarono, ed il padre Ercolani domandandogli se nulla aveva che gli turbasse la pace dello spirito, al che il moribondo rispose le ultime sue parole: "Padre mio, non mi pare. Spero coll'aiuto di Dio di aver fatto quanto ho potuto per la salute delle anime, e confido nella sua misericordia, che vorrà salvare ancora la mia". Ciò detto stringendosi al suo Crocifisso che portava al suo petto, placidamente rese l'anima al suo Creatore, vittima della più ardente carità.
Appena spirato il padre Mornia, nelle quattro colline di cui si compone il villaggio di Cioplea, altro non si sentì che un pianto generale, misto di lamentevoli grida, di cui rimbombava tutto l'aere. In ogni casa sembrava che fosse morto il padre o la madre, tanto era il dolore, che ognuno esternava con lagrime e singhiozzi, per la morte del caro loro missionario. Nessuno aveva sentito la nuova della sua morte, eppure dal pianto del vicinato tutti si accorsero ch'egli non era più in vita, e concorrevano quasi loro malgrado, a far lutto per la sua morte.
Due signori tedeschi , che a caso si trovavano nel villaggio e testimoni furono del pianto universale, improvviso e concorde di tutti gli abitanti, non poterono trattenere le lagrime, e domandarono di veder colui che tanto si piangeva da tutti.
L'aspetto del cadavere del missionario, vestito dell'abito di Passionista, colla testa aspersa di cenere e col Crocifisso nelle mani, produsse nei loro spiriti una impressione di tanto terrore, che nella stessa sera furon ambedue attaccati di peste, e dopo pochi giorni morirono.

Monsignor Ferreri era da Cioplea passato ad abitare in un casino di un cattolico amorevole nelle vicinanze di Bukarest, ove aveva dovuto prestar la sua assistenza a due appestati, e dove porgeva a Dio fervidi voti ed umili preghiere pel suo gregge, procurando con la compunzione e con la penitenza placare l'irritato suo sdegno. All'annunzio funesto della morte del padre Mornia lasciò il suo ritiro e portòssi di nuovo nel villaggio, già presago che la ferita fatta al suo cuore paterno da questa perdita gli avrebbe recato la morte.
Pochi giorni si trattenne in Cioplea, e dopo aver rianimati e consolati tutti, portossi a Bukarest in cui il bisogno di un sacerdote cattolico era estremo. La sua presenza in quella desolata città valse a diminuire il terrore della morte che impadronito si era di tutti gli spiriti.
Tosto si dié a percorrere i diversi quartieri, visitare gli ospedali e le case ov'erano infermi, prodigando da per tutto la beneficenza della sua carità. La filantropia degli scismatici aveva abbandonata la piazza; l'arte salutare, se pur ve n'era, si era dichiarata impotente, gli uomini più coraggiosi impallidivano all'aspetto dell'orribile flagello che vieppiù imperversava, i più deboli e pusillanimi si
erano ritirati dentro inaccessibili rifugi, mentre un numero innumerabile d'infelici languiva e moriva in mezzo ai più crudeli dolori, e al più completo abbandono.
In questi momenti di angoscia e di spavento lo zelo e la carità di monsignor Ferreri, già abituata a combattere con le più desolanti calamità, prese nuova lena, e si vestì di un coraggio e di una attività infaticabile. Nuovo Carlo Borromeo, egli si assisteva vicino al letto degli appestati e con l'accento della religione, con la tenerezza di padre gli assisteva, li confortava, e gli aiutava a ben morire. Infierendo il morbo era il pio prelato in un continuo moto per soccorrer le infelici vittime, per salvar l'anime dalla disperazione, e far risplendere agli sguardi dei moribondi un raggio d'immortalità.
In mezzo a tanti travagli viene annunziato al vescovo che il p. Ercolani, solo missionario rimasto a Cioplea, è attaccato dalla peste.
Parte immediatamente da Bukarest per condursi colà, onde apprestare qualche soccorso al pericolante
confratello, ma per disposizione della Provvidenza trova che l'attacco è molto benigno, e lo stato dell'infermo non è punto allarmante.
La sera del 3 novembre 1813, chiamato a confessare un moribondo di peste, vi si conduce senza ritardo, e qui appunto vien colpito dal morbo micidiale. Ne sentì le prime leggerissime impressioni, ma non curolle; si ritirò in casa, e postosi in letto non ebbe più forza da uscirne.
La mattina, visitato dal padre Ercolani, fu trovato delirante per l'eccesso della febbre, prognostico sempre funesto negli appestati. Nel delirio altro non faceva che ripeter salmi e cantici, effetto di quella santa abitudine contratta di parlar sempre con Dio col linguaggio delle Scritture.
Ed in verità, attestarono coloro che lo conobbero, esser egli stato uomo di sì grande orazione, che tutto il tempo che gli avanzava dalle sue occupazioni, lo spendeva in questo santo esercizio, di niun'altra cosa gustando che del commercio con Dio.
Calmato alquanto il parossismo, e tornato perfettamente in sé, conobbe la gravezza del suo male , e disse che non avrebbe scampata la morte. Rassegnato amorosamente alla divina volontà, domandò di confessarsi, compiendo quest'atto di religione con una pietà ed una compunzione che inteneriva, quindi volle ricevere il Santo Viatico, recitando da se stesso genuflesso in terra il Confiteor.
Confortato al gran passo dall'amoroso Signore, non altro più pensò, o desiderò che seco Lui unirsi eternamente in cielo.
I suoi discorsi furono in quel giorno tutti di Dio e del Paradiso; la serenità del suo volto, la tranquillità del suo spirito in mezzo ai dolori più spietati davano a conoscere quanto bella e generosa fosse quell'anima, che consumava il suo sacrifizio con tanta costanza, e con una calma imperturbabile. Verso la sera aggravatosi il male , e sentendosi ormai sul punto di abbandonare la terra per andare a Dio, domandò l'Estrema unzione e la benedizione in Articulo mortis.
L'una e l'altra gli fu compartita dal padre Ercolani, il quale, malgrado la sua infermità, non seppe mai indursi ad abbandonare un momento il venerabile infermo.
Sul declinare del giorno 4 novembre 1813, il pio prelato assorto già tutto collo spirito in Dio, e già vicino a spirare, domandò un messale; avutolo vi pose sopra il suo capo, come in contestazione del suo tenerissimo amore pel Vangelo di Gesù Cristo, e della sua fede ed attaccamento a quelle verità rivelate, che aveva in vita sua difese, insegnate e predicate. In tal positura, dopo pochi momenti, rese l'anima al Signore in età di anni 73 e giorni 10, quattordici dei quali spesi egli aveva nelle fatiche apostoliche in qualità di missionario di Bulgaria, e otto nel Vescovado.
La sua povertà non gli permise di aver tanto da poterne disporre per via di testamento, onde la piccola somma di 25 scudi che gli restava, unica risorsa per tutti i suoi bisogni, volle che fosse in parte impiegata in celebrazioni di messe in suffragio dell'anima sua ed un'altra venisse erogata in elemosine ai poveri. Morendo questo degno prelato seco lui portò i giusti dispiaceri di tutta la Cristianità, che avevalo stimato e rispettosamente amato. Niuno potrà mai obliterare la dolce e paterna cura che preso sempre si era del suo gregge , ch'egli edificò costantemente, mostrando in azione la carità, lo zelo, la tenerezza, la compassione, e tutte le virtù di un vescovo degno dei primi secoli della Chiesa.
La facilità del suo spirito, l'esquisitezza dei suoi lumi, la maturità di sua prudenza, la forza, la vivezza ed energia della sua apostolica eloquenza, la saviezza nel maneggiar affari, la sodezza di sua dottrina gli acquistarono la riputazione e la stima universale, ed il rispetto degli stessi suoi nemici.
L'amenità del suo carattere, la religiosa urbanità, un'ingenua semplicità, unita ad una rara modestia, e le dolci attrattive della sua conversazione gli guadagnarono tutti i cuori.
La Chiesa di Nicopoli non vide mai fra suoi vescovi un'anima più pura, più candida, più sinceramente pia, più profondamente dedicata a tutti i suoi doveri di buon pastore, che questo illustre prelato, il quale sacrificò la sua vita per assistere nei più terribili pericoli le sue pecorelle.
Fu sepolto il suo corpo nella piccola chiesa di Cioplea, da lui stesso fabbricata due anni prima, ed a perpetua memoria delle sue virtù e dei suoi meriti, venne formata una modesta iscrizione nella parete sovrapposta lateralmente allo stesso sepolcro, la quale tutt'ora si legge nei termini seguenti:

HIC JACET FRANCISCUS FERRERIUS EPISCOPUS NICOPOLITANUS
CONGREGATIONIS PASSIONIS D.N.J.C.
PATIENTIA MAGNUS HUMILITATE MAJOR CHARITATE MAXIMUS
QUI TEMPORE PESTIS UT PASTOR BONUS
ANIMAM SUAM DEDIT PRO OVIBUS SUIS
DIE 4 NOVEMBRIS 1813

Morto monsignor Ferreri, tutti i Cattolici di Bukarest e delle sue vicinanze restarono affatto senza sacerdoti, che loro prestassero assistenza e soccorso.
Il solo P. Ercolani, scampato per effetto di special provvidenza dalla morte, dimorava in Cioplea inchiodato in letto per una gran piaga formatasi nella gamba al suppurar che fece il tumore pestilenziale da cui era stato attaccato. Afflitto dalla perdita dei suoi confratelli, e molto più per esser restato privo del Pastore, teneva fisse in mente le ultime sue parole, con cui raccomandato gli aveva la cura più vigilante e sollecita di tutti i fedeli fino a tanto che la S. Sede provvedesse di nuovo vescovo quella vedova Chiesa, ma nulla poteva operare a vantaggio altrui, bisognoso nel suo dolente stato del caritatevole soccorso degli altri.
Malgrado però la sua impotenza ad uscir di casa, ed a portare agli appestati i soccorsi e le consolazioni della religione, non si stiede ozioso nel suo involontario ritiro.
Risaputosi dai Cristiani dei circonvicini paesi ch'egli era restato in vita, accorrevano da tutte le parti al suo povero letticciolo gli attaccati di peste, condotti sopra carri o strascinandosi a gran pena per le strade, affin di ottener la grazia di confessarsi almeno l'ultima volta da un prete cattolico, e morire in pace.
A tutti prestavasi il buon Padre con carità e tenerezza singolare, ne ascoltava le confessioni fino a notte avanzata, li consolava, gli animava a patir volentieri, e li disponeva a ricever cristianamente la morte. Finché riavutosi dalla sua grave malattia, si diede con tutto lo zelo al libero esercizio delle sue funzioni in beneficio di quell'afflitta Cristianità.

Il flagello della peste che così orribilmente desolato aveva la provincia di Vallachia, e privatala di quasi tutti i ministri del Vangelo, non fece minore strage in Bulgaria.
Il P. Molinari, unico missionario Passionista in quelle contrade, emulando lo zelo dei suoi confratelli, che restati erano vittime della loro carità non risparmiò fatica alcuna per soccorrere i cristiani attaccati dal morbo pestifero. Giorno e notte correva per i villaggi a visitare infermi, ad assistere moribondi, ad amministrar Sagramenti, ed a portar dovunque conforto e consolazione a tanti poveri che abbandonati in quell'estremo dai loro più stretti congiunti languivano
nella miseria e nell'indigenza più completa. Quasi due anni continui, quanti appunto durò ad infierire la peste micidiale, condusse una vita di stenti, di fatiche, di sudori, e di sagrifizi i più penosi, sempre mantenuto in sanità ed in forza dalla amorosa Provvidenza del Signore, che vegliava fra tanti pericoli alla sua difesa.
La nuova della morte del P. Mornia e di Mgr. Ferreri fece una piaga profonda al suo cuore e fu tale l'afflizione da cui era compreso, che per due giorni non poté negare a quei suoi cari confratelli il tributo di un tenerissimo pianto. Il dolore eccessivo alterò la sua salute, ma non lo impedì però, per qualche tempo ancora dall'esercizio della sua indefessa carità.
Finalmente una precipitosa caduta da cavallo, fatta nel correre all'assistenza di un moribondo appestato, l'obbligò a porre termine alle sue fatiche impossibilitato a più muoversi.
In tale stato fù assalito dalla peste sì fieramente che, apertosi il gran tumore nell'inferior parte del ventre, non cessarono gli spasimi acerbi, che continuamente dové soffrire, se non colla morte.
Nel corso della sua malattia lunga e penosa, più volte si confessò dal sacerdote Sancio, suo zelante cooperatore nel ministerio, più volte ancora volle ristorarsi col pane degli Angeli, quale ricevé sempre con i sentimenti della più viva fede e della più tenera pietà. Mancando a poco a
poco la sua vita fu munito degli ultimi Sagramenti, e fra le lagrime e singhiozzi di alcuni cristiani che lo assistevano, rese il suo spirito al Signore nella florida età di 31 anni.

I cinque villaggi di Bulgaria in cui si trovavan cattolici, restarono alla morte del P. Molinari coll'unico sacerdote svizzero, don  Michele Sancio, il quale dividendo fra quei fedeli le sue cure e sollecitudini, riparò in parte il gran vuoto lasciato dai missionari restati vittime del flagello desolatore. Dopo una strage la più orribile fatta di quei popoli infelici, al comparir dell'anno 1814 diminuì la peste la sua intensità ed in poco tempo scomparve affatto, lasciando da per tutto impresse le orrende vestigia della sua fierezza sterminatrice...

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