Condivido con gioia, per i lettori di cose bulgare, questa finora inedita "lettera pastorale", che il vescovo bulgaro mons. Pavel Dovanlia scrive ai suoi quattro preti (proprio 4 di numero: i passionisti p. Francesco Ferreri e p. Michele Hirschenauer, gli alunni di Propaganda don Mattia Razdilovich e don Nicolò Zilve).
Siamo nel 1796, il vescovo è bloccato a Bucarest con le sue perenni malattie, da poco è finita l'ennesima guerra tra Russi e Turchi che ha stravolto le popolazioni lungo il Danubio, dopo di essa è scoppiata una terribile peste, con molte vittime, e pure una terribile carestia: una situazione davvero tragica, nella quale questi quattro missionari fanno quel che possono.
Monsignor Paolo cerca di rincuorare gli sconfortati missionari, e li invita a rimanere saldi in Gesù Cristo, la vera vita, ed a non perder la speranza che il seme del Vangelo darà frutti a suo tempo. Buona lettura!
18/11/1796, Bucarest. Lettera Pastorale di mons. Pavel Dovanlia[1]
Alli reverendi Padri in Cristo
carissimi
Missionari nella Diocesi di Nicopoli.
“Ego sum vitis vera, et vos
palmites;
qui maneat in me et ego in eo, hic fructum multum”. Joan c. 15
L’amore inesplicabile di Gesù Christo verso l’anime nostre, di cui parlando l’evangelista disse: “Cum dilexisset suos qui in mundo erant, in finem dilexit eos”[2] (Joan c. 13), ci dovrebbe esser presente in tutti li nostri andamenti e in tutte le nostre operazioni, giacché scarsi sono tutti i momenti della nostra vita per poterci dimostrare in qualche piccol maniera grati e riconoscenti a Gesù Cristo, che sparso ha tutto il suo sangue morendo in croce per salvarci.
A vista di questo amore
l’apostolo San Paolo, il quale rapito al terzo cielo potè più d’avvicino
ammirarlo, scrivendo ai Corinti disse che l’amore di Gesù Cristo non solo ci
alletta, non solo ci attrae, ma anche ci costringe e stimola ad abbandonare il
pensiero della nostra vita per totalmente vivere in Gesù Cristo: “Charitas
Dei urget nos, ut et qui vivunt, iam non sibi vivant, sed ei qui pro ipsis
mortuus est”[3].
Gesù Cristo medesimo, per
farci comprendere il dovere che ci corre di vivere totalmente in lui e per lui,
si degna di assimigliarsi alla pianta della vite: “Ego sum vitis vera”,
e di dichiarare noi suoi veri tralci: “et vos palmites”.
Imperocché, siccome i tralci
sani sono sempre uniti alla lor vite, così noi che siamo chiamati da Gesù Cristo
suoi tralci, dobbiamo sempre esser uniti ed attaccati, col pensiero,
coll’affetto, col cuore, in tutte le nostre azioni ed operazioni, a questa vite
divina: “Ego sum vitis vera, et vos palmites”.
San Basilio, con altri interpreti,
sopra il salmo 45, versetto 10: “Vacate et videte, quoniam ego sum Deus,
exaltabor in gentibus et exaltabor in terra”[4],
interpreta questa esaltazione per l’esaltazione di Gesù Cristo nella croce; si
esaltò questa divina vite sul tronco della croce, ed esaltandosi verificò quel
che prima della sua morte aveva detto, che “cum exaltatus fuero a terra,
omnia traham ad meipsum”[5].
Poiché extendens
dall’alto della sua croce palmites suos usque ad mare et usque ad flumen
propagines ejus, attrasse a sé ed alla sua legge le genti ed i popoli, li
quali prima, vivendo preoccupati da terreni affetti, erano una vil porzion di
terra, che innaffiata da maligni e rei umori di sregolate passioni, altro non
produceva che spine e tribuli, materia propria per il fuoco e combustione
eterna.
Ma sottomessisi poi alla fede
di Gesù Cristo ed unitisi come propaggini alla vite divina, esaltati a tal
unione esaltarono in se stessi questa divina vite sopra tutti i lor beni
terreni, sopra i lor comodi affetti e desideri, e sopra anche la lor propria
vita, dando prove, ab ortu solis usque ad occasum, che veramente essi
non più vivevano a se stessi, ma sol vivevano per Quegli che morendo per loro
in croce li aveva a se stesso attirati ed uniti, e dato loro aveva una vita
nova, novi sentimenti, novi affetti, novi desideri; e così del tutto in altri
trasformati, perché vivificati dallo Spirito di Gesù Cristo, col lustro delle virtù
e buone lor opere, fecero apparire nel mondo e risplendere quelle stelle elette,
che Iddio nell’Antico Testamento in figura le accennò ad Abramo, sfidandolo a
numerarle, se pur gli fosse ciò stato possibile: “Numera stellas, si potes”[6].
Còmputo in verità difficile e
solo noto a quei che “numerat multitudinem stellarum et omnibus eis nomina
vocat”[7],
e che si degnò d’attrarsele a sé e renderle degne del suo santo amore, facendo in
queste fortunate anime verificarsi il suo detto: “Qui manet in me et ego in
eo, hic fert fructum multum”.
Molto riguardo alla durazione,
perché frutto d’eterna vita.
Molto per l’efficacia, perché gustato
fa abborrire e schifare l’apparenti e vane dolcezze mondane.
Molto per l’utilità, perché chi lo
gusta non si arresta solamente a provarlo e gustarlo ei solo, ma passa in
oltre, anche a vedere, come dice il profeta: “Gustate et videte”; passa
dico in oltre anche a vedere, ossia perché col lume che se gli accresce nella
mente, apertamente conosce e vede non esser al mondo soavità da compararsi alla
dolcezza e soavità del Signore; ossia perché provata e gustata la dolcezza del
Signore, si eccita, si anima, si impegna di farla gustare anche agli altri, col
mettersi nel ruolo dei videnti, per poter colla predicazione e coi sudori
apostolici attirar degl’altri a gustare “quoniam dulcis et suavis est
Dominus”.
In questo ruolo di videnti osservo,
con mia spiritual contentezza, ascritti anche voi, o carissimi in Gesù Cristo. Alcuni
di voi, che fin dall’età tenera distaccatisi dal sangue e dalla carne, si sono
esposti ai patimenti ed incomodi di longhi e scabrosi viaggi, per andar in
cerca della scienza loro necessaria ad esser utili al prossimo, forniti appena
della quale, senza frappor dimora, si sono riportati nella Patria per offrirsi
per tutto il corso della lor vita in vero olocausto al Signore, a pro
dell’anime.
Ed altri di voi, che per offrirsi
al Signore in medesimo fine, si sono allontanati dalle lor Patrie, dalla quiete
e tranquillità che godevano nei santi lor chiostri, e si sono esposti per amor
di Gesù Cristo e del prossimo bisognoso ad abitare in timore e tremore in
luoghi derelitti, soggetti ad ogni oppressione, a conversare con persone rozze,
povere, estranee, ed a udire tra queste linguam quam non noverant, impegnandosi
per acquistar nell’altra vita il Regno dei Cieli, non solo a diventar fanciulli
nei costumi e nell’innocenza, ma anche ad imitarli nel balbettare.
A tutto ciò riflettendo io più
attentamente, mi riempio di spiritual contentezza, vedendovi così bene e
tenacemente quali sani ed eletti tralci, uniti alla divina vite, confermandomi sempre
più nella speranza che perseverando voi in tal santa unione di star in Gesù
Cristo e Gesù Cristo in voi, infallibilmente riportareste quel beato frutto, da
Gesù Cristo chiamato “fructum multum”, tanto per voi stessi,
coll’avanzarvi semre più nell’amore e nella grazia del Signore e coll’attrarvi abbondantemente
le benedizioni celesti, quanto per il vostro bisognoso prossimo, continuando ad
esercitarvi nell’intrapresa carriera di attrarre con zelo anche gli altri alla
santa unione della vite divina, adducendoli a gustare con voi “quoiam dulcis
et soavis est Dominus”, dolce e soave non solo al palato dei beati, ma
anche in questa valle di lacrime, a chi s’accosta a gustarlo, sebbene con
palato meno atto a distinguere la dolcezza e soavità.
Ma non è però che nel mentre
mi riempio di consolazione riguardandovi per questo verso, non mi riempia
nell’istesso tempo anche di molta compassione verso di voi, considerando la
gran violenza che dovete quasi continuamente usare nel superare non solo le
renitenze della carne, sempre debole e fiacca, ma anche per tollerare con
pazienza tante opposizioni ch’il sito infelice in cui vi trovate vi presenta di
giorno in giorno.
Opposizioni che, quasi
importuni argini, ritengono il corso del vostro zelo ed il corso dell’acque
salubri che dai fonti del Salvatore attingeste, colle quali desiderareste senza
ritegno innaffiare l’ignoranza e debolezza nella fede dell’anime commessevi.
Il che so che vi si rende
gravoso, e che provate in ciò maggior pena che non proviate nell’acquietar i
lamenti dell’afflitta vostra carne.
Ma facciamoci animo,
carissimi, nel Signore: “Omnia possum”, diceva l’apostolo, “in eo qui
me confortat”. Impegnamoci di giorno in giorno colla buona vita d’unirci
sempre più alla nostra divina vite, e di gustare il Signore nelle orazioni
frequenti, nelle lezioni spirituali, massime nel quotidiano sacrificio della
santa messa, che così non vi saranno nel mondo per noi amarezze ‘sì
stomachevoli, ‘sì noiose, ‘sì rincrescevoli che non ci sian raddolcite dal
nostro Signore Gesù Cristo, il quale si gloria d’averci imposto un giogo soave
ed un peso leggiero, e che per mezzo del suo santo apostolo ci assicura che non
ci avrebbe caricati d’un peso maggiore e superiore alle nostre forze.
Vero è che non vi è palato il
quale nel masticare l’assenzio non ne senta l’amarezza: bisognarebbe non aver
palato per non sentirla!
Ma qui appunto s’asconde il
merito: sentir l’amarezza d’una missione ‘sì difficile e ‘sì scabrosa, ed
esserne davvero amareggiati, più di quel che ci fossimo potuti mai immaginare;
ma intanto, coll’aiuto della divina grazia, non cedere né ributtare il calice
amaro, anzi, generosamente opporsi alla debolezza della carne con quelle parole
di Gesù Cristo: “Calicem quem dedit mihi Pater, non bibam illum”.
Certamente il palato della
carne mai cesserà di ributtarlo, ma il palato dello spirito, confortato dalla
grazia, non solo l’accetterà, ma anche lo beverà con avidità e con sete, ad
imitazione di Gesù Cristo, il quale nell’atto d’inghiottire l’ultimo sorso del
calice amaro della sua Passione, sulla croce morendo disse: “Sitio”, per farci intendere
che non solo l’inghiottiva, ma per il desiderio grande che aveva di liberarci
dall’amarezze del peccato lo beveva anche con avida sete.
So che la debolezza della
nostra carne potrà dire che queste sono parole d’esortazione, composte al
tavolino nella quiete, cose già tante volte dette, sentite, lette e rilette; ma
infatti quis est iste che poggi a tanta altezza? Et laudabimus eum:
a tanto alto son arrivati l’Apostoli ed innumerabili altri uomini apostolici
infiammati dallo Spirito Santo. Ma chi non si trova sul monte, ma nella
bassezza della valle, come potrà a tanto compromettersi ed aspirare a tanto?
Ma ricordiamoci, carissimi, di
quel che dice l’Apostolo, che “stella differs a stella in claritate”. A tanta
perfezione, alla quale son arrivati i santi, se anche noi arriveremo, certamente
anche noi saremo ammessi nel numero delle stelle maggiori che nell’empireo splendono.
Ma in qualunque maniera si
pensi, ci sovvenga che per quanto presentemente ci stimiamo difettosi, deboli, privi
di spirito e di zelo e di forze bisognevoli per una missione, le difficoltà della
quale sono tali e tante che niun altro le può concepire, se non chi ne porta attualmente
il peso, pure fermamente speriamo d’arrivare un giorno, colla grazia di Dio, al
Paradiso.
A ciò tendiamo, per ciò
viviamo, per ciò tanto fatichiamo e sosteniamo la soma di ‘sì grave peso, per
finalmente salvarci ed essere anche noi ammessi nel numero delle stelle
dell’empireo (se non tra le stelle maggiori, se non tra le più splendenti…
almeno tra le stelle inferiori, tra le minime sì, ma pure anche esse stelle
del’empireo!).
Questa è la nostra speranza,
questa è la nostra fiducia, questa è la nostra aspettazione. E tanto speriamo, perché
siamo tralci uniti alla divina vite, e di tanto ci vantiamo!
Ma questa vite non è quella
vite appunto che alligna[8]
nelle colline? Che non ama le bassezze delle valli? Che non si pianta nei
luoghi ombrosi? E che volle esser in luoghi eminenti esposta alla sferza del
sole?
Ora, se ci vantiamo di esser tralci
di questa vite, ci è indispensabile, carissimi, di non trovarci nei posti in
cui la nostra vite è piantata.
E’ da notarsi ancora che
questa vite ha tutta la cura per i suoi tralci, e sa ben distinguere le loro
necessità e indigenze, le più occulte, e dà a tutti li suoi tralci il
proporzionato umore, in qualunque sito si trovino, e da qualunque parte
pendino, purchè pendino attaccati ed uniti ad essa.
Sicchè, carissimi, stimiamoci
pure deboli, difettosi, privi dello spirito e qualità necessarie a tal nostra
vocazione, ma non già per renderci pusillanimi, inquieti, afflitti, incontenti,
instabili, ma per maggiormente confidare nella virtù e nella grazia di Dio, e
per maggiormente impegnarci a far da parte nostra quei sforzi che la nostra
debolezza può fare, sostenuta dalla divina grazia.
Diciamo pure, non solo colle
parole, ma con vero interno sentimento: “Servi inutiles sumus”, ma
intanto sforziamoci da parte nostra di poter dire un dì con verità anche: “Fecimus
quod debuimus”; se non con la perfezione propria dei gran santi, almeno quel
che noi, costituiti in tal sito, in tali circostanze, in tali forze, fra tali
persone, abbiamo potuto fare, giacchè chi fa sinceramente da parte sua quel
tanto che puol fare, può francamente dire d’aver fatto il suo dovere, giacchè è
scritto: “Recupera proximuum suum secundum virtutem tuam”.
Né il conoscimento dei mancamenti,
che nell’esercizio del nostro ministero come uomini commettiamo, deve in noi
alimentare e fomentare la pusillanimità: siamo sacerdoti, che dobbiamo offrire
i sacrifici prima per i peccati nostri, e poi per i peccati del popolo.
Né pure dobbiamo abbatterci, se
nel sito infelice in cui ci troviamo non otteniamo un frutto corrispondente ai
nostri desideri o ai nostri evangelici sudori, anzi, secondo a quel che ci pare
un frutto assai tenue, per non dir affatto nullo, perché la predicazione non lascia
mai d’esser efficace: “Vivus est enim sermo Dei, et efficax et
penetrabilior omni gladio ancipiti: et pertingens usque ad divisionem animae ac
spiritus”[9].
Molte volte può esserci del frutto, ed esserci in abbondanza, abbenchè
da noi non sia avvertito. Non tutti i semi che si seminano subito pullulano e dan
fiori… Accade che un seme, già scordato, dopo anni ed anni si vede inopinatamente
spuntare, che certamente se quel seme non fosse stato seminato… non spuntarebbe:
“Non est abbreviata manus Domini”. La grazia del Signore opera in
tempore opportuno, riguardo anche alla qualità del terreno.
Quanti, che avendo ricevuto il seme della Parola di Dio, non se ne son
serviti in vita, ma in punto della morte, quando si pensa altrimente, aiutati
dalla grazia di Dio, per mezzo di quelle sante parole del missionario, da tanto
tempo sentite e sprezzate, ma ritenute nella memoria… quanti, si sente dire, rientrano
in sé, e si mettono in stato di salute eterna!
E che se certo non l’avessero
mai sentite, quelle esortazioni o prediche, mancandoli tal aiuto in quel punto,
si dovrebbe la salute delle loro anime riporre solo nelle mani d’una
miserciordia di Dio ben extraordinaria!
A noi spetta di seminare,
piantare colla frequente predicazione, d’innaffiare coll’esempio della nostra
buona vita, coll’orazione; l’incremento poi non dipende da noi, tutto dipende
da Dio, tutto viene da Dio: “Ego plantavi”, diceva l’Apostolo, “Apollo
rigavit, Deus autem incrementum dedit”[10].
Tanto più che dal suddetto
abbattimento il seminator zizzanie et mali consigli potrebbe prender motivo di
molto guadagnare sopra di noi, ingererendoci nel pensare che, se fossimo in
altro luogo, in altro sito, fra altri popoli più docili, più colti, meno
oppressi… cavaressimo molto maggior frutto e rimanessimo più quieti nella
coscienza.
Pensieri in apparenza buoni,
ma in sostanza inutili, incerti, e forse nati dalla nostra vanità; pensieri che
nulla di bene produrrebbero in noi, anzi, ci farebbero molto del male, perché
ci conturberebbero e raffredderebbero nell’attual nostro ministero, tollendoci
l’ilarità e quiete d’animo e rendendoci meno atti a coltivare le piante che
intanto abbiamo tra le mani: il pensiero di conversioni ideali ci farebbe meno
attenti alle conversioni presenti.
Preveniamo perciò, carissimi,
l’angelo delle tenebre vestito di luce, colla santa rassegnazione alla volontà
e disposizione di Dio.
Attendiamo piuttosto
seriamente, diligentemente, a lavorare quella porzione di vigna ch’attualmente
abbiamo per le mani, impegnandoci ad assistere al popolo commessoci con paterna
carità che, quando è continua, non può talmente occultarsi che non si avverta con
frutto anche dai più ritrosi e discoli: mostriamoci pronti e solleciti nel
spezzar il pane spirituale al popolo, non dico con prediche formali e lunghe,
ma con discorsi famigliari adatti allo stomaco del rozzo popolo, il quale più
osserva da quali mani gli vien distribuito, che da quali parole gli sia reso
esquisito.
E nel ricordarvi e
sollecitarvi all’obbligo che ci corre di spesso spezzare il pane spirituale al
popolo, per animarci via più a ciò, inserisco una sentenza di san Giov[anni]
Crisostomo, nella quale il santo spiega il gran merito che si acquista col
predicare e coll’eccitare l’anime all’amor di Dio: “Da mihi”, dice il
santo nel trattato De
vera sapientia, “da mihi unum aliquem, qui virtutis studio sese
quotidianis jejuniis maceret, qui cubet in dura humo, qui
corpusculum flagris fatiget, atterrat et prope conficiat, quique in se parcus,
in pauperes effusus, et fere prodigus omnia bona sua in eos effuderit, non
tantum merebitur, quantum qui unicam animam ad amorem Dei excitaverit”[11].
Noi abbiamo l’occasione
opportuna d’acquistarci questo gran merito, trovandoci nell’attual ministero di
predicare e di eccitare l’anime alla cognizione e all’amor di Dio: non la
trascuriamo, ma totis viribus procuriamo d’acquistarci con ‘sì gran
merito tesoro doppio, ridondante in tanto nostro utile ed in eterno pro
dell’anime commesseci.
E qui con lode vi approvo, ed
esorto a proseguire tanto finita la messa, quanto finita la dottrina cristiana,
di far fare l’Atti di fede, speranza e carità e contrizione ai vostri fedeli,
eccitandoli a farli spesso, tanto per assuefarsi a questi Atti tanto necessari
ad ogni cristiano, quanto per acquistare l’indulgenze concesse dai Sommi
Pontefici di 7 anni e 7 quarantene, toties quoties, e l’indulgenza plenaria
nel fine del mese, a chi li avesse nel corso del mese ogni giorno recitati,
confessandosi e comunicandosi nel fine del mese.
Invitati ad amministrar i
santi sacramenti, procuriamo d’esternare colla pazienza di Cristo anche nel
volto, la prontezza interna dell’animo, per così maggiormente allettare quelli
che li chiedono, e per non dar motivo a quei freddi, che poco impegno hanno per
le lor anime, di prender dai segni meno ilari del nostro volto pretesto o di
differirli, o di affatto ometterli.
In quanto poi agli figlioli
piccoli, ricordiamoci sempre di quel che Gesù Cristo disse agli Apostoli: “Sinite
parvulos ad me venire”.
Dobbiamo dire “sinite”
ai padri ed alle madri, esortandoli a mandare i lor figlioli alla dottrina
cristiana.
Dobbiamo anche dire “sinite”
alle reticenze della nostra carne, riflettendo che dobbiamo superarle, sia per
imitare Gesù Cristo, il quale in riguardo della innocenza si degnò colle sue
divine mani accogliere ed accarezzare quei fanciulli, per insegnarci di sempre
rispettare ed onorare tal virtù, quando anche questa fosse esternamente meno
corredata e vestita anche di vili cenci; come pure per adempiere l’obbligo
stretto che ci corre di innaffiare le tenere piante, acciò a tempo prendino
radici sode e profonde per poter, cresciuti che saranno, mantenersi forti nella
santa fede in luoghi ove purtroppo regnano venti furiosi e frequenti turbini.
Seguitando Gesù Cristo nel
suddetto capitolo a parlare in favore dei figlioli piccoli, ne da la ragione, perché
dice: “Quia angeli eorum in caelis semper vident faciem Patris mei, qui est
in caelis”[12].
Non avrebbe detto Gesù Cristo
qualche cosa di particolare in favore di tali fanciulli, mentre anche l’angioli
dei provetti in caelis semper vident faciem Patris, se non avesse inteso
di spiegarci che l’angeli di quei teneri fanciulli si impegnano in modo assai
particolare a custodire quei teneri lor clienti, perché in loro scorgono tuttora
intatta l’immagine e similitudine di Dio, la di cui faccia come angeli ammirano
sempre nei cieli, e custodiscono in terra con particolar zelo sia la di Lui
immagine, che vedono pura ed intatta in quei fanciulli innocenti.
Oltre il merito grande che
acquisteremo appresso Iddio, coll’accogliere ed istruire i piccoli fanciulli,
ci sarà anche molto opportuna e vantaggiosa, nel sito in cui ci troviamo, la
protezione di tanti angeli di quanti figlioli ne saremo maestri, concorrendo,
con sollecitudine conforme ai detti angeli, nel custodire coll’istruzione
l’innocenza in quei fanciulli, e coll’insegnarli la maniera di conservarsela in
appresso.
Infine, carissimi, vi esorto a
proseguire, come so che fate, di spesso raccomandarvi a Dio colla orazione. Si
sa che le piante elette devono esser più spesso innaffiate.
Gesù Cristo, per guarirci
dalla presunzione, ci dice che “sine me, nihil potestis facere”[13].
Per guarirci dall’ozio, ci
dice: “Oportet semper orare, et non deficere”[14].
Per guarirci dalla diffidenza,
ci dice: “Petite, et dabitur vobis; pulsate, et aperietur vobis”[15].
Samuele, chiamato da voce
divina, tre volte saltò dal letto e corse pronto dal sacerdote Heli, ma sempre
invano; non conobbe la voce divina, né sentì l’ordini di Dio, se non quando
pregò e col cuor innocente disse: “Loquere, Domine, quia audit servus tuus”[16].
Per mezzo della orazione
otterremo la grazia da Dio d’esser tralci sempre uniti alla vite divina, e di dar
quel frutto che Gesù Cristo lo chiama fructum multum: Ego sum vitis vera, et
vos palmites, qui manet in me et ego in eo, hic fert fructum multum.
Per l’orazione finalmente,
attaccandoci sempre più a Dio, di giorno in giorno sempre più crescerà in noi la
confidenza e ferma speranza che il Signore Iddio, per sua misericordia, compirà
in noi quel che esso ha in noi cominciato, dandoci la grazia di perseverare
fin al fine nella vocazione alla quale ci ha con tante grazie chiamato: “Non
vos elegisti, ma sed ego elegi vos”[17],
e di sperimentare un dì, là, nei tabernacoli eterni, quanto vero fosse quel che
per mezzo del profeta ci disse: “Electi mei non laborabunt frustra!”[18].
Tanto desidero e prego per me,
e tanto desidero ad ognuno di voi.
E pregandovi dal Cielo ogni
vero bene, vi do la mia pastorale benedizione, ch’il Signore Iddio si degni
confermare ed accrescere sopra di voi e sopra cotesti cristiani commessi alla
spiritual vostra cura.
Qui sponte obtulistis de Israel animas vostras ad periculum,
benedicite Domino![19]
Paolo Dovanlia, Vescovo di Nicopoli
Alli 18 novembre 1796
[1]
AGCP A 143.
[2]
Cfr. Gv 13, 1: “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua
ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel
mondo, li amò sino alla fine”.
[3] Cfr. 2 Cor 5, 14-15: “
[4] Cfr. Sl 46,11: “Fermatevi e
sappiate che io sono Dio, eccelso tra le genti,
eccelso sulla terra”.
[5] Cfr. Gv 12, 32: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”.
Cfr. Ricciardi G., Le omelie sui salmi 45 e 59 di Basilio di Cesarea:
introduzione, edizione critica, traduzione, commento storico-esegetico”, Roma
2013, p. 130: “Sarò innalzato fra le genti, sarò innalzato sulla terra. Il
Signore dice chiaramente queste cose a proposito della sua passione, come sta
scritto nel Vangelo: E quando sarò innalzato, attirerò tutti a me. E come Mosè
innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che il Figlio dell’uomo sia innalzato
sulla terra. Poiché dunque doveva essere innalzato sulla croce per le genti,
e ricevere l’innalzamento per tutta la terra, per questo dice: Sarò innalzato
fra le genti, sarò innalzato sulla terra”.
[6] Cfr. Gn 15,5:
“Poi lo condusse fuori
e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e
soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza»”.
[7] Cfr. Sl
146,4: “Egli conta il numero delle stelle
e chiama ciascuna per nome”.
[8]
Dal verbo allignare: mettere radice, attecchire, diffondersi.
[9] Cfr. Eb 4,12:
“Infatti la parola di Dio è viva,
efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al
punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e
scruta i sentimenti e i pensieri del cuore”.
[10]
Cfr. 1 Cor 3,6: “Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto
crescere”.
[11]
Omelia 39 sulla Genesi.
[12]
Cfr Mt 18,10: “Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi
dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è
nei cieli”.
[13]
Cfr. Gv 15,5: “Senza di me non potete far nulla”.
[14]
Cfr. Lc 18,1: “Propose loro ancora questa parabola per mostrare che dovevano pregare
sempre e non stancarsi”.
[15]
Cfr. Mt 7,7: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto”.
[16]
Cfr. 1 Sam 3,10: “Parla Signore, perché il tuo servo
ti ascolta”.
[17]
Cfr. Gv 15, 16: “Non voi avete scelto me, ma io ho
scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro
frutto rimanga”.
[18]
Cfr. Is 65, 23: “I miei
eletti godranno a lungo dell'opera delle loro mani, non
faticheranno invano”.
[19] Cfr. Gdc 5,2: “Uomini d'Israele, i quali offeriste volontariamente al pericolo le vostre vite, benedite il Signore”.
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