17 ottobre 2020

Uffa, che puzza di muffa! Battista l’alpinista, ovvero di come è dura la vita di un apripista…

Dovete sapere che a Belene non esistono i citofoni, e neppure campane, campanelli batacchi ed affini sui cancelli e sulle porte delle case. Per cui… quando si va a casa di qualcuno, non si suona aspettando una risposta ed un eventuale invito ad entrare: si apre e si entra. 

Così, una volta, durante la visita pasquale e la benedizione delle famiglie (di mestiere faccio il parroco…), mi son permesso di entrare anche in quella casa là, che sempre avevo ignorato, in quanto oltre ad apparire abbandonata, mezza diroccata e mezza sepolta dalla ridente vegetazione stile giungla, tutti mi indicavano come vuota e deserta. 

E così, sforzando un po’ il vecchio cancellino arrugginito bloccato dai rovi e attraversando il giardino facendo slalom tra gli arbusti (se c’avessi avuto un macete sarebbe stato più semplice….), immaginate la mia sorpresa e stupore, quasi sussulto di spavento, quando, aperta un po’ la porta d’ingresso, una voce gutturale mi paralizzò sulla soglia: 

“Fermo lì! E lei chi è?”. 

“Scusi… sono il parroco… pensavo che in casa non ci fosse nessuno… desidera la benedizione pasquale”?, chiesi titubante alla voce che era emersa dalla penombra. 
“Prego, si accomodi”, rispose quella. 

Entrai, al buio, senza veder nulla. E subito mi assalì le narici una puzza tremenda di muffa, di chiuso, quasi di decomposizione. 

“Prego, venga qui. E accenda pure la candela che c’è sul tavolo”, disse la voce, che così ad occhio mi pareva provenire dalla mia destra. 

Andai da quella parte, quasi mi scontrai con un tavolo, ma riuscii ad accendere la candela che vi era sopra. Ed allora vidi che da una poltrona lì accanto, girata verso un grande televisore, emergeva una folta ed incolta chioma che ad occhio apparteneva ad una testa umana, la quale probabilmente da anni non vedeva la forbice di un parrucchiere. 

Circumnavigai il tavolo e la poltrona, e finalmente vidi la persona (ancora non avevo capito se era un uomo o una donna….) stravaccata sulla poltrona. 

Era una cosa strana. Oltre alla testa, ricoperta come dissi da una folta, ma proprio folta ed enorme chioma incolta, c’era una irsuta, ma proprio irsuta e selvatica barba, e poi questa cosa era vestita con vestiti vecchi, logori, rappezzati e… ricoperti di muffa. Ma proprio uno strato di muffa verdognola, violetta, giallognola e… nauseabonda. 

Mentre ancora gli occhi ed il naso stavano cercando di metabolizzare questo assalto di dati ed informazioni, quell’essere poltronato mi disse: 

“Salve, padre. Si accomodi pure”, con voce gentile, chiaramente maschile. 

Mi sedetti su una sgangherata sedia di legno scricchiolante lì di fronte, e gli dissi: 

“Buongiorno a lei! Il Signore è veramente risorto! Io sono padre Virgilio, il parroco di qui. E lei come si chiama? Mi pare che è la prima volta che ci vediamo….”, dissi io. 

“Veramente è risorto! Buongiorno, padre. Sì, lo so chi è lei… ho sentito molto parlare di lei, ed è un piacere conoscerla di persona. Io sono il Battista. Ha mai sentito parlare di me?”, disse. 

“Beh… veramente no. Pensavo che questa casa fosse vuota, e tutti mi hanno sempre detto che era vuota…”. 

“Ah! Capisco… Ed invece ci vivo… o meglio ci sopravvivo io. Mai sentito parlare del Battista, il famoso alpinista, quello che ha fatto da apripista a tutte le spedizioni bulgare sopra tutti gli ottomila?”. 

“Beh, sì… Chi non lo conosce?! E’ una leggenda! Ma è da anni che è sparito dalla circolazione… nessuno più sa dov’è… Non sarà mica… non sarà mica per caso lei?!?”. 

“Battista l’Alpinista in persona, in carne ed ossa!”, rispose quello. 

“Ma che onore! Permetta che le stringa la mano! Lei era un mio mito da ragazzo! Piacere di conoscerla!”, dissi entusiasta io, e gli strinsi la mano. 

“Ma mi racconti! Lei abita qui… e nessuno lo sa… Lei è sparito dalla circolazione… cosa è successo? Mi racconti….”, aggiunsi io, rimettendomi a sedere. 

“Ah, padre… padre… Sapesse… Ormai son più di tre anni che non vedo anima viva e son qui rinchiuso in casa. Questa è sempre stata la mia casa… Si metta comodo, che adesso le racconto“, disse lui. 

E fu così che Battista l’alpinista iniziò a raccontare la sua storia, e le ore passarono. 

Più o meno questa è la sintesi, in quanto per raccontare tutta la storia della sua vita… occorrerebbe una vita. 

Più o meno disse così: 

“Caro padre… Deve sapere che fin da piccolo avevo dentro… come dire… un desiderio immenso di salire verso il cielo! Mi hanno detto che quando avevo un anno, invece di gattonare sul pavimento come tutti i marmocchi, io mi arrampicavo sul divano, sui mobili del salotto, sui vasi… E poi, appena assunta la posizione eretta, invece di correre per il giardino o giocare a palla od andare col triciclo… mi arrampicavo su tutte le piante, sulle grondaie, sulle recinzioni… sempre più in alto, sempre più su… Il mio primo ricordo è di quando avevo cinque anni… e per la prima volta riuscii ad arrampicarmi su su per la grondai fin sul tetto e raggiunsi il camino in mezzo al tetto, e ci salii sopra… ricordo una goduria infinita, lì, solo, in cima al camino, con le braccia spalancate, accarezzato dalla brezza, a contemplare per la prima volta l’orizzonte intorno a me, i tetti delle case, il campanile, il bosco, il Danubio… e poi i pompieri, chiamati dai miei preoccupatissimi genitori, che con l’autoscala mi “salvavano” dal tetto… anche se mi sentivo più salvo, vivo e vegeto lì in cima, più che tra le loro mani. 

E la cosa continuò, con mia grande gioia e con crescente preoccupazione dei miei genitori. 

Ogni albero che vedevo… mi chiamava a scalarlo. 

Ogni traliccio della corrente… mi seduceva e mi invitava a risalirlo. 

Ogni collinetta, rialzamento del terreno, tetto, campanile, parete… mi urlava dentro: “Vieni, e scalami!”. 

Io ci provavo a resistere, vedevo come soffrivano i miei… ma ‘sta roba era più forte di me. Abbandonavo tutto, lì per strada, e mi mettevo a scalare qualsiasi cosa verticale. Sempre più su, sempre più in alto verso il cielo. 

Ovviamente i miei, che oltre che premurosi eran pure saggi, si dissero: “Questa sua mania di salire è invincibile, pericolosa e deleteria. Ma non riusciremo mai a sconfiggerla… Proviamo almeno a domarla”. 

E fu così che all’età di dieci anni mi mandarono dagli scaut, pensando che loro mi avrebbero un po’ imbrigliato. E più o meno ci riuscirono. 

E fu così che per ben diciassette anni, insieme agli scaut, uscii dalla piatta pianura di Belene, che fino allora mi era sembrata strapiena di cime da salire, e con loro scoprii le montagne. E così, dagli Appennini alle Ande, dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno… entusiasta, pieno di stupore, stracolmo di gioia… ogni giorno una nuova cima, ogni giorno un nuovo panorama, ogni giorno sempre più vicino al cielo. 

E raggiunsi il settimo cielo, quando a ventisei anni scalai per la prima volta l’Everest. 

E forse tutti pensavano che finalmente fosse finita lì. 

Invece, proprio lì, in cima all’Everest, solo, sulla vetta del mondo, nella notte limpida e tersa, contemplando l’oceano di stelle che come una soffice trapunta mi avvolgeva, sentii dentro di me la solita conosciuta voce: “Battista, caro il mio alpinista… non ti accontenterai mica di questa collinetta… Su, avanti, più su! Fino alla luna! Fino alle stelle! E… mica solo tu! Porta tutti in cielo!”. 

E che ci potevo fare? Scesi dall’Everest, e cominciai ad organizzare gruppi, gruppetti e pure singole persone, per accompagnarle verso il cielo. Scalammo insieme tutte le vette del mondo, e la mia gioia più grande era stupirmi del loro stupore quando arrivavano, stanchi e trafelati, sulla cima, e contemplavamo i meravigliosi paesaggi. 

E così, per tutti i diciassette anni successivi, finchè… 

Finchè un giorno accadde il patatrack. 

Stavamo salendo di nuovo l’Everest, con alcuni compagni. Ma questi qui erano un po’ più brontoloni e fiacchi degli altri. Continuavano a stressare di fermarci, di riposare, di tornare indietro. Ed io, come al solito, dicevo: “Su, dai, avanti, ancora un po’…”. 

Ad un certo punto, arrivati quasi in cima, su un crinale molto stretto ed infido, quei simpaticoni, coalizzatosi, mi circondarono e, dopo aver reciso la corda che ci univa… puf! 

Mi diedero una bella spinta e mi gettarono giù nel canalone. 

Mi son risvegliato su questa poltrona, a casa mia. Paralizzato dalla testa ai piedi. I miei genitori mi hanno raccontato che ero stato sei mesi in coma in un ospedale nepalese, con tutte le ossa rotte, un polmone perforato, la milza spappolata, la schiena rotta, i denti a pezzi. Durante questi mesi mi hanno rimesso un po’ in sesto là in Nepal, e poi son riusciti a farmi tornare a casa, tre giorni prima. E dopo tre giorni e tre notti mi son finalmente risvegliato. 

Prima che potessi riprendere a parlare, molte volte i miei mi hanno ripetuto questo ritornello: “Oh, caro Battista nostro! Figliuolo… come siamo contenti che dopo 34 anni sei tornato a casa! Lo sapevamo che sarebbe andata a finire così… più si va in alto, più si rischia di cadere… ma ora siam qui noi, e ci prenderemo cura di te… mai più ti lasceremo andare a scalare quelle maledette montagne… quasi quasi ti ammazzavano!”. 

Io avrei voluto dir loro che le montagne eran benedette (magari maledetti erano quei disgraziati che mi avevan buttato giù a tradimento…), e che grazie a loro la mia vita finora era stata super bellissima… e che avevo una pazza voglia di tornare a scalare… ma dalla gola maciullata non mi uscì mai una parola. 

E così… siccome sono sempre stato ubbidiente, feci quello che dicevano loro. 

E son rimasto qui a far la muffa su questa poltrona per tre anni, ormai. Guardo la tele, leggo libri, scrivo al compiuter favolette per i bambini, mi faccio un po’ di fumate, e vivacchio. Qualche volta riesco ad alzarmi e fare qualche passo in salotto… ma non sono mai più uscito. I miei pensano a tutto: mi portano da mangiare, mi comprano i libri, non mi lascian mancare niente…”. 

Intanto si era fatta sera. Dopo aver ascoltato tutta questa commovente storia, dissi al Battista: 

“Ma non ti piacerebbe uscire un po’, a vedere magari di nuovo le stelle?”. 

“Beh… sì… ma ho paura che rivedendole… mi venga di nuovo voglia di raggiungerle…”. 

“Capisco… però… mi sembri infelice qui così…”. 

“Infelice? Boh… Ho tutto quello che basta… anche se… boh… All’inizio, cioè tre anni fa, dopo il risveglio traumatico… mi sentivo come un leone in gabbia, con la bava alla bocca ed un immenso desiderio di sfondare la gabbia… poi mi son diventato come un cane bastonato, con le orecchie basse e la coda scodinzolante, in attesa del biscottino. Ora mi sento proprio un nulla, non ho voglia di far più nulla, se non guardare la muffa che mi cresce sui vestiti…”. 

“Battista! Mi sa che stai precipitando nel baratro della depressione, l’esatto opposto delle cime delle montagne… Ma sei proprio sicuro di continuare a scendere in questi inferi?”, gli dissi. 

“Beh… tanto… ho vissuto alla grande… son sopravvissuto… ora vivacchio mica male… cosa vuoi di più?!?”. 

“Beh… che ne diresti di tornare a vivere, per esempio? Su, dammi la mano, e vieni con me. 

Lo accompagnai fuori, a riveder le stelle. 

E con gioia, da quel corpo goffo e da quella testa irsuta, sentii uscire un sorriso ed un piccolo raggio di speranza. Ed il Battista l’alpinista dire, con un nuovo tono di voce: 

“Ma che bello è questo cielo, padre Virgilio! Me n’ero quasi dimenticato!”.

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