14 agosto 2020

Il pallino di topo Lino, il birichino topolino albino che voleva esser l’artefice del suo destino, e non capendo un acca di latino, voleva diventar il pontefice Lino

Per secoli la prosperosa colonia del popolo dei Muridi aveva prosperato sulle sponde del Danubio, più o meno dove attualmente sorge la gloriosa città di Belene. 

La terra era molto fertile, la temperatura molto temperata, il cibo abbondante, acqua a volontà: che volete che facciano i Muridi? Prosperano. 

E così i figli dei Muridi come tutti nascevano, mangiavano, dormivano, andavano a scuola, poi si sposavano o andavano a convivere, lavoravano, etc etc, etc. Il solito tran tram. 
Circa duemila anni fa avvenne questa cosa curiosa, che ancora si tramanda. 
Nella famiglia di Ercole Mishkov, uno dei casati di pantegane più illustri, nacque un bambino un po’ strano: piccolino, gracilino, albino, timidino, mutino, ciechino, sordino… Cioè, non gli mancava niente, ma in tutto era di qualche taglia più piccolo. Ci sentiva, ma un po’ meno degli altri. Ci vedeva, ma un po’ meno degli altri. Parlava, ma molto meno degli altri e con un tono più basso. 

Insomma, era un po’ minorato in tutto. 

Visto che non era scemo, anche se ancora era piccolino, capiva di essere un po’ lo zimbellino di tutti, e così invece di passare il tempo giocando con gli altri più in tutto di lui, lui se ne stava ore ed ore seduto sulla sponda del Danubio, a guardare l’acqua scorrere e sognare… sognare di prender il largo da quella topaia, e magari andare sull’altra sponda in cerca di avventure… 

Arrivò anche per lui il suo primo giorno di scuola, e ovviamente mise il suo bel grembiulino, prese il suo zainettino, col quadernino e la merendina, e gli assegnarono il suo posticino, un banchettino in un angolino. 

La maestra Topastra De’ Rattis, dopo aver fatto l’appello, disse: 

“Bene, bravi bambini, topolini miei. Adesso, ditemi: che cosa volete fare da grandi”? 

I piccoli muridi cominciarono a rispondere: l’ingegnere, il dottore, l’imprenditore, lo svaligiatore di caseifici, l’attrice di Topivud, il topografo, la geografa, il disoccupato, il fabbro, il diffusore di virus, lo sturatore di fogne, etc. etc. 

Alla fine anche topo Lino, timidamente, disse: “Da grande voglio fare il pontefice…”. 

Dopo la risata colossale di tutta la classe, la tossicchiante maestra gli disse: “Ma Lino! Cosa dici? Guarda che è praticamente impossibile diventare pontefici! Devi entrare in seminario, poi fare il lettorato, l’accolitato, l’ostiariato, il celibato, il diaconato, l’episcopato, il malcapitato, lo scritturato, il silurato, il cardinalato, il pensionato, l’imbucato, lo spelacchiato e quindi… se sei ancora vivo e hai meno di 200 anni, arrivi al pontificato…”. 

Lino la guardò col suo visino da bambino un po’ stralunatino, e facendo il suo solito sorrisino birichino le disse: “Beh, tutto qui? Cominciamo… Non mi sembra il caso di perdere tempo!”. 

“Ma… beh… insomma… Va bene! Studia, studia tanto, e vedrai che diventerai un bravo pontefice”!, gli disse la brava maestra, che ben sapeva di non frustrare i sogni dei bambini, ma di educare i loro desideri, come diceva il grande poeta: “Fatti non foste per viver come brutti ratti, ma per seguir virtute e canoscenza”. 

Poi aggiunse: “Caro il mio Lino, piccolo topolino albino, ricordati però di studiar bene il latino”! 

“Va bene, signora maestra!”. 

E da quel giorno l’entusiasta topo Lino iniziò a studiare come un matto. Solo che di latino non ci capiva un cavolino. Pur mettendocela tutta, prendeva sempre un bel zero. 

Per esempio, una volta la maestra gli chiese: “Lino, declinami la parola ROSA”. 

E il topo Lino rispose: “Non c’è rosa senza spine. Rose rosse per te ho raccolto stasera. Rosa di sera, bel tempo si spera. Tanto va la rosa al lago, che si bagna il gambettino. Rosa pastello, ragazzo monello. Una rosa per la sposa, lei ti dona ogni cosa”. Voto: zero. 

In compenso, chissà perché, eccelleva in altre materie, dove tutti gli altri erano frane. 

Il primo anno divorò i testi di matematica come formaggio. 

In seconda si rimpinzava di geometria. 

In terza divenne un asso in trigonometria. 

In quarta elementare teneva convegni di ingegneria. 

Passò poi a cimentarsi con l’edilizia, quindi con la fisica. 

E sempre il massimo dei voti. Mentre in latino… zero. 

Per pietà gli diedero il diploma, pur essendo un totale disastro in latino. 

La maestra cercò di consolarlo: “Caro Lino, ormai sei un topo fatto. Pazienza per il latino… non potrai mai diventare un pontefice, ma pazienza: con tutte le altre tue superlative conoscenze, vedrai che avrai successo nella vita…”. 

“Ma io voglio diventare un grande pontefice!”, disse, e se ne tornò a casa triste. 

A casa, vedendolo triste triste e mogio mogio, i suoi, spinti da buoni propositi, provavano a dargli mille incarichi: 

“Lino… vuoi andare a far la spesa al mercatino? 

Lino, mi aiuti a cambiare al nonno il pannolino? 

Lino, ci aiuti a vendemmiare e fare il vino? 

Lino, puoi portare a tuo cugino questo formaggino? 

Lino, mi vai a comprare un cioccolatino? 

Lino, puoi tagliare l’erba in giardino? 

Lino, puoi stendere i panni del catino? 

Lino, mi aiuti a lavare il tappetino? 

Lino, mi dai una mano a pulire il camino? 

Lino, mi macini il sale fino fino? 

Lino, andiamo a fare un giro in motorino?”. 

E così di seguito, ogni giorno. 

Lino, che ovviamente era un bambino sempre molto disponibile, faceva tutto quello che gli dicevano. Ma nei pochi momenti liberi, sgattaiolava sulla sua amata sponda del Danubio. 

I suoi genitori lo sapevano, e gli lasciavano questi piccoli attimi di solitudine, senza disturbarlo, per non essere troppo possessivi ed invadenti. 

E tutto filò liscio e sereno come formaggio fuso e filato per qualche mese, finchè… finchè una sera topo Lino non tornò a casa, come suo solito. 

I genitori, pensando che fosse andato a dormire da qualche conoscente, dormirono sonni tranquilli. 

Ma la mattina dopo, non vedendolo ancora tornare, un po’ agitati, cominciarono a cercarlo tra i parenti e gli amici. Ma niente. Lino era sparito. 

Tutta la colonia fu allora messa in agitazione, e cominciarono a cercarlo in tutti gli angoli ed in tutti i buchi. 

Finchè sua mamma, ebbe un colpo di fulmine: “Oddio! Lui va sempre sul Danubio… non è che magari ci è borlato dentro?!?? Magari la corrente l’ha trascinato via…”. 

Ed allora tutti corsero sgambettanti verso il posto dove di solito Lino andava a meditare e sognare, e… 

E restarono tutti a bocca aperta ed occhi spalancati per la sorpresa! 

Davanti ai loro occhi c’era un enorme ponte strallato ad una campata, che partiva dalla loro riva e terminava sull’altra. 

Sul pilone di destra c’era appeso un fogliolino, con questo pensierino: 

“Non ho mai capito a cosa servisse il latino,
ma c’ho provato a studiarlo, da bravo bambino. 
Per costruire ponti non serve a niente! 
Meno male che ho studiato ingegneria, fisica e matematica! 
Ora che sono diventato un pontefice ed ho fatto su il mio primo ponticino, con uno scatto felino, me ne vado da questo buco di paesino. 
Per mesi son venuto qui, in questo angolino, 
ed ogni giorno mettevo sassolino sopra sassolino. 
Non è poi così complicatino tirar su un ponticino. 
Bai bai a tutti! Mi son scelto il mio destino! Ciao!” 
E da allora più nessuno vide mai più il pontefice topo Lino.

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