24 luglio 2020

Il tartaro dei deserti


Sentendo parlare di tartaro… magari pensi subito a qualche problema dentario causato dagli zuccheri dei desserti… invece in questa storia non c’è neppure un cenno né alla dentatura né alla dolcezza dei desserts. Ti racconto invece la storia del soldatinus Paulinus, un barbaro tartaro dei deserti, la storia di come liberò Dimum dal tedio dell’assedio col suo fantastico rimedio.

Come tutti sanno, dove ora sorge il paesello chiamato Belene, duemila anni fa sorgeva la fortezza romana chiamata Dimum; cosa sorgerà fra duemila anni… beh, nessuno ancora lo sa.
Questa Dimum, caposaldo dell’Impero Romano lungo il Limes, non era poi così importante: una piccola roccaforte come tante, dove non succedeva mai niente, dove le uniche invasioni eran quelle annuali delle zanzare, la qual cosa nessuno si sognava di scolpire sulla colonna Traiana…
In questa piccola fortezza, c’era una piccola guarnigione della Prima Italica Legione.

Che trascorreva tediosamente i suoi tediosi giorni, nella solita imperterrita rutin quotidiana.
Finalmente, durante una Guerra, una delle tante, che sconvolse la Terra e mandò molte persone sottoterra, anche Dimum ne fu coinvolta: era ora! Non essendo in una serra, ma ben piantata in questa terra, venne anche per lei l’ora di perdere la sua perenne e pacifica verginità.
Un giorno, all’improvviso, senza nessun preavviso, all’orizzonte comparvero le armate degli invasori, migliaia di soldati armati fino a denti. Alla loro guida il mitico Attila, il flaggello d’Iddio, quello che dove passa lui non cresce più l’erba. Eh, sì: proprio lui!
Come avessero fatto ad arrivare a Dimum è uno dei misteri insoluti della storia, e penso che mai lo scopriremo. Probabilmente sbagliarono strada e si persero… comunque…
Purtroppo la guarnigione presente a Dimum era un po’ sguarnita.
Valerius Tertius Silva, praefectus castrorum, era il comandante plenipotenziario della Fortezza.
Romulus Maximus Brevipedus, primus pilus, era l’ufficiale anziano.
Patricius Francus Gallicus, un veterano delle Gallie.
Enzinus Abrutus Clericus, legionario semplice.
Salvus Frastornatus Capitonis, pure lui legionario semplice.
E poi c’erano il veterano in pensione Ghirgus Vetus Miles, che faceva il pensionato, e l’ausiliario Paulinus, un barbaro tartaro dei deserti, che da bravo soldatino lavorava come tuttofare.
Mai nessuno si era sognato di potenziarla, ripetendo il famoso motto: “Ma a chi vuoi che interessi un bucum come Dimum, dove non succede mai niente”?
Bene. I temibili Unni posero l’assedio alla fortezzula Dimum, che di solide ed invalicabili mura ben cinta, si asserragliò aspettando che la bufera passasse.
E fu così, che dalla sera alla mattina, Belene fu cinta d’assedio.
Fatto sta che il comandante Silva, reduce da vent’anni di molte guerre e battaglie, senza scomporsi più di tanto, radunò subito i suoi soldati, vergini di schermaglie, ordinando loro il daffarsi:
“Cari soldati, calma e sangue freddo. La situazione è evidente. Siamo circondati. Ma qui dentro siamo al sicuro. Mai nessuno ha conquistato questo castello. Questa è una verità! Qui siamo al sicuro…”. Tutti lo ascoltavano ritti sull’attenti, bevendo ogni parola come oro colato, tranne…
“Scusi, comand…”, iniziò a dire l’ausiliario Paulinus, alzando il ditinus del braccinus, ma fu subito interrotto da Silva (ad onore della storia, Paulinus voleva solo dire che era ovvio che Dimum non fosse mai stata conquistata da nessuno… perché nessuno l’aveva mai assaltata! Comunque…:
“Taci, ausiliario del mio salario! Tu non devi parlare, solo operare. Esegui gli ordini, obbedisci e basta!”, disse stizzito il comandante Silva, proseguendo: “Ora, ognuno ai propri posti: chiudete tutte le porte, tutte le finestre, tutti i camini, tutti i possibili passaggi. E dite a tutta la popolazione di stare calmi, di continuare la vita normale come niente fosse.”.
E fecero come lui aveva detto.
Passarono i giorni, passarono le settimane. E gli Unni continuarono l’assedio, aspettando di prendere la cittadella e depredarla. Passarono i mesi.
Dentro Dimum i viveri cominciarono a scarseggiare, la gente cominciò a morire, ma il comandante Silva ogni settimana ripeteva sempre i soliti ordini:
“Tutto è sotto controllo. Tutto va bene. State sereni. Continuate a fare quello che facevate prima. Qui dentro siamo al sicuro. Non preoccupatevi: abbiamo mandato lettere per chiedere rinforzi, arriveranno presto. Etc Etc….”.
E l’ausiliario Paolino, ogni volta, alzava il ditinus del suo braccinus, e provava a dire qualcosa, ma Silva sempre lo zittiva. Ad onore della storia Paulinus voleva suggerire un rimedio per uscire dall’assedio… ma nessuno gli dava retta.
Finchè un giorno, finalmente, Silva concesse al povero tartaro dei deserti di parlare:
“Bene, parla Paulinus! Così la smetterai di rompere, per Giove!”
“Scusate illustri commilitoni! Ma io voglio proprio rompere questo assedio! E’ da mesi che cerco di dirvi che io avrei un rimedio per rompere questo assedio…”.
“Cosa? Tu, pezzente maniscalco, un rimedio per l’assedio? Ma va’ a ferrare i millepiedi, che è meglio!”, dissero denigrandolo i suoi colleghi legionari.
“No, aspettate! Un rimedio c’è… ma siamo in troppi… basterebbe uno di noi per sconfiggere gli unni, uno che uscisse e andasse là, in mezzo a loro e….”
“Ma sei tutto scemo? Già siamo in pochi, e vuoi che uno solo esca contro queste migliaia di barbari indiavolati? Ma tu sei tutto suonato! Noi ce ne staremo qui, belli comodi, ad aspettare i rinforzi da Roma!”, ovviamente gli risposero.
Passarono altri giorni e altre settimane, e l’assedio continuava, e la gente continuava a morire, ed i rinforzi agognato a non arrivare, e gli unni ad aspettare.
Il comandante Silva ripeteva le solite identiche cose, tutti ascoltavano ed ubbidivano da bravi soldatini, ed il solito Paulinos provava di nuovo a proporre il suo rimedius all’assedius, ma nessuno gli dava rettas.
Finchè un giorno, dopo tre anni e mezzo di tedio dell’assedio, Paulinus agì, stanco di quella noia mortale e vedendo che presto sarebbero morti tutti di fame, certo di risolvere le cose una volta per tutte, ed infischiandosene degli ordini di Silva e dell’inerzia dei commilitoni che stava conducendo tutto all’implosione.
Col favore della notte, Paulinus uscì di nascosto dal suo acquartieramento, con in mano un sacco e quatto quatto si diresse vero la parte bassa della fortezza, quella rivolta verso il Danubio, dove il rivoletto delle fogne passava sotto le possenti mura.
Osservando il tubo di scolo, e tirando il fiato prima di infilarcisi dentro, Paulinus sospirò e sottovoce mormorò: “Eh sì, Paulinus, barbaro tartaro dei deserti! Coraggio! La porta è proprio stretta… Ed è proprio una situazione di cacca… Ma su, buttati! Un piccolo sforzo… Sarà solo un piccolo sforzo per te, ma un grande passo per l’umanità! Un.. due.. tre… Via!”, e si gettò nello scarico della fogna, uscendone un po’ smerdato dall’altra parte. Ed andò a compiere la sua missione, solo contro tutti (e da allora più nessuno lo vide…).
La mattina dopo, al canto del gallus, con suo grande sorpresa, la sentinella Gallicus, strabuzzando gli occhibus, non credette ai propri occhibus: gli Unni erano spariti!
E si mise a gridare, e correre, e gridare a tutti che della notte non restava più nulla, che il nemico era scomparso, che avevano vinto:
“Abbiamo vinto, ragazzi! Abbiamo scacciato gli Unni! Ci siamo salvati!”.
I pochi Dimunciani superstiti, insieme ai legionari superstiti, smunti ed amaciati fecero un po’ di fatica a far festa ed a credere ai propri occhi. Però poi alla fine, affacciandosi sulle mura, si convinsero davvero che il nemico non era più alle porte, e uccisero il povero vitello magro rimasto, e fecero una modesta festicciola per essersi salvati da quel terribile assedio.
Ovviamente nessuno notò l’assenza di Paulinus, e nessuno sentì mai più parlare di lui… e la vita continuò, o meglio continuarono a vivacchiare, ed ancora oggi vivacchiano ed aspettano i sospirati rinforzi che ancora non sono arrivati…
L’unico cambiamento fu che dovettero scavare un nuovo canale di scolo per la fogna, visto che il vecchio non funzionava più… chissà perché.
Ti interessa sapere cosa fece Paulinus, e di come liberò Dimum dal tedio dell’assedio col suo fantastico rimedio?
Beh, penso di sì, perché l’onere e l’onore di questo miracolo è colpa sua.
Uscitò un po’ smerdato dalla fogna, sgattaiolò in mezzo all’accampamento degli Unni. Giunto lì estrasse dal suo sacco non un coniglio e neppure la farina del suo sacco, ma una piccola seghetta, e cominciò silenziosamente a tagliare tutte le punte delle lance, sostituendole con teste di zappa che pure estraeva dal suo sacco. Poi prese tutte le spade dei guerrieri, le mise in un pentolone, e dopo averle bollite bene cominciò a versare il metallo fuso nello stampo di vomere, che pure tolse dal suo saccò. E, dopo aver trasformato le lance in zappe e le spade in vomeri, piantò un bel cartello in mezzo all’accampamento. Quindi andò nella tenda di Attila, il flaggello d’Iddio, lo svegliò e gli disse, nella lingua dei Tartari del deserto:
“Grande ed universale ed onnipotente ed esagerato Attila! Sono uno schiavo dei fetenti Romani… Son riuscito a fuggire da Dimum… Se ti mostro la vià per entrare e conquistare questa fortezza… mi prenderai al tuo servizio? Non voglio né oro né argento… solo annientare per sempre questi pazzi romani! Su, vieni….”.
L’assonnato Attila, credendo che gli dei gli avessero mandato in sogno un messaggero (chi mai nella realtà si sarebbe potuto infilare nella tana del leone, con migliaia di guardie attorno?), si alzò barcollando, e lasciandosi guidare per mano come un marmocchio, seguì Paulinus fino al condotto fognario che usciva dalla cittadella di Dimum.
“Su, Attiluccio, guarda con i tuoi occhi, guarda dentro e vedrai la via per conquistare Dimum!”, gli disse suadente Paulinus.
Il grande Attila infilò la testa nel condotto, e vedendo dall’altra parte la fortezza, esclamò: “Mostruoso veramente! Vedo la luce in fondo al tunnel!”, e furono le sue ultime parole, perché Paulinus gli diede un bel calcione nel deretanus, e Attila si incastrò nel tubbo, e col tubo tappato… beh.. Attila finì annegato nella m… Sic transit gloria mundi…
E, compiuta la sua opera, cioè di liberare Dimum dal tedio dell’assedio col suo fantastico rimedio, il tartaro barbaro Paulinus, preso il suo sacco con gli attrezzi, si incamminò verso i suoi amati deserti.
Al mattino, quando i terribbili Unni si svegliarono, non trovarono Attila il loro capo, e non trovarono neppure le loro lance e spade, ma solo zappe ed aratri, ed erano un pochino confusi… ma quando lessero il cartello, misero a riposo il loro cervello, e sospiraron di sollievo:
“Guerrieri miei! La guerra è finita! Fate l’amore, non fate la guerra! Tornate a casa dalle vostre donne, e fate tanti bambini, che è meglio! Prendete le zappe e gli aratri, e zappate la terra, che è meglio! Prendete pure i soldi e l’oro dalla mia tenda, in parti uguali, e tornate a casa! Lunga vita agli Unni! Io salgo in cielo, tra gli dei, dove è il mio posto! Su, andate! Fate l’amore e non la guerra, e zappate la terra: che contadino è meglio di soldatino!”.
E così, dopo essersi spartiti i tesori della tenda di Attila, e prese zappe ed aratri e tutto il resto, i terribbili Unni tornarono nelle steppe, dalle loro donne. E zapparono, scavarono pozzi e canali, costruirono fattorie ed allevamenti, e vissero felici e contenti.
E da allora più nessuno sentì parlare dei terribili invasori Unni.

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